Legge 22 maggio 1978 n. 194

 

Legge 22 maggio 1978 n. 194
(pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 140 del 22 maggio 1978)

NORME PER LA TUTELA SOCIALE DELLA MATERNITA’ E SULL’INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA

La camera dei deputati ed il senato della repubblica hanno approvato;

Il presidente della repubblica

Promulga la seguente legge:
Articolo 1

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.

L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.

Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.
Articolo 2

I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza:

a) informandola sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio;

b) informandola sulle modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante;

c) attuando direttamente o proponendo allo ente locale competente o alle strutture sociali operanti nel territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per risolvere i quali risultino inadeguati i normali interventi di cui alla lettera a);

d) contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza.

I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita.

La somministrazione su prescrizione medica, nelle strutture sanitarie e nei consultori, dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile è consentita anche ai minori.
Articolo 3

Anche per l’adempimento dei compiti ulteriori assegnati dalla presente legge ai consultori familiari, il fondo di cui all’articolo 5 della legge 29 luglio 1975, n. 405, è aumentato con uno stanziamento di L. 50.000.000.000 annui, da ripartirsi fra le regioni in base agli stessi criteri stabiliti dal suddetto articolo.

Alla copertura dell’onere di lire 50 miliardi relativo all’esercizio finanziario 1978 si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto nel capitolo 9001 dello stato di previsione della spesa del Ministero del tesoro per il medesimo esercizio. Il Ministro del tesoro è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le necessarie variazioni di bilancio.
Articolo 4

Per l’interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolge ad un consultorio pubblico istituito ai sensi dell’articolo 2, lettera a), della legge 29 luglio 1975 numero 405, o a una struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione, o a un medico di sua fiducia.
Articolo 5

Il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall’incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto.

Quando la donna si rivolge al medico di sua fiducia questi compie gli accertamenti sanitari necessari, nel rispetto della dignità e della libertà della donna; valuta con la donna stessa e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, anche sulla base dell’esito degli accertamenti di cui sopra, le circostanze che la determinano a chiedere l’interruzione della gravidanza; la informa sui diritti a lei spettanti e sugli interventi di carattere sociale cui può fare ricorso, nonché sui consultori e le strutture socio-sanitarie.

Quando il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, riscontra l’esistenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, rilascia immediatamente alla donna un certificato attestante l’urgenza.

Con tale certificato la donna stessa può presentarsi ad una delle sedi autorizzate a praticare la interruzione della gravidanza.

Se non viene riscontrato il caso di urgenza, al termine dell’incontro il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, di fronte alla richiesta della donna di interrompere la gravidanza sulla base delle circostanze di cui all’articolo 4, le rilascia copia di un documento, firmato anche dalla donna, attestante lo stato di gravidanza e l’avvenuta richiesta, e la invita a soprassedere per sette giorni. Trascorsi i sette giorni, la donna può presentarsi, per ottenere la interruzione della gravidanza, sulla base del documento rilasciatole ai sensi del presente comma, presso una delle sedi autorizzate.
Articolo 6

L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Articolo 7

I processi patologici che configurino i casi previsti dall’articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell’ente ospedaliero in cui deve praticarsi l’intervento, che ne certifica l’esistenza.

Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell’ospedale per l’intervento da praticarsi immediatamente.

Qualora l’interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all’articolo 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale.

Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.
Articolo 8

L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale tra quelli indicati nell’articolo 20 della legge 12 febbraio 1968, numero 132, il quale verifica anche l’inesistenza di controindicazioni sanitarie.

Gli interventi possono essere altresì praticati presso gli ospedali pubblici specializzati, gli istituti ed enti di cui all’articolo 1, penultimo comma, della legge 12 febbraio 1968, n. 132, e le istituzioni di cui alla legge 26 novembre 1973, numero 817, ed al decreto del Presidente della Repubblica 18 giugno 1958, n. 754, sempre che i rispettivi organi di gestione ne facciano richiesta.

Nei primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere praticata anche presso case di cura autorizzate dalla regione, fornite di requisiti igienico-sanitari e di adeguati servizi ostetrico-ginecologici.

Il Ministro della sanità con suo decreto limiterà la facoltà delle case di cura autorizzate, a praticare gli interventi di interruzione della gravidanza, stabilendo:

1) la percentuale degli interventi di interruzione della gravidanza che potranno avere luogo, in rapporto al totale degli interventi operatori eseguiti nell’anno precedente presso la stessa casa di cura;

2) la percentuale dei giorni di degenza consentiti per gli interventi di interruzione della gravidanza, rispetto al totale dei giorni di degenza che nell’anno precedente si sono avuti in relazione alle convenzioni con la regione.

Le percentuali di cui ai punti 1) e 2) dovranno essere non inferiori al 20 per cento e uguali per tutte le case di cura. Le case di cura potranno scegliere il criterio al quale attenersi, fra i due sopra fissati.

Nei primi novanta giorni gli interventi di interruzione della gravidanza dovranno altresì poter essere effettuati, dopo la costituzione delle unità socio-sanitarie locali, presso poliambulatori pubblici adeguatamente attrezzati, funzionalmente collegati agli ospedali ed autorizzati dalla regione.

Il certificato rilasciato ai sensi del terzo comma dell’articolo 5 e, alla scadenza dei sette giorni, il documento consegnato alla donna ai sensi del quarto comma dello stesso articolo costituiscono titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero.
Articolo 9

Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dello ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni.

L’obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua presentazione al medico provinciale.

L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento.

Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare lo espletamento delle procedure previste dall’articolo 7 e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.

L’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.

L’obiezione di coscienza si intende revocata, con effetto, immediato, se chi l’ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l’interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente.
Articolo 10

L’accertamento, l’intervento, la cura e la eventuale degenza relativi alla interruzione della gravidanza nelle circostanze previste dagli articoli 4 e 6, ed attuati nelle istituzioni sanitarie di cui all’articolo 8, rientrano fra le prestazioni ospedaliere trasferite alle regioni dalla legge 17 agosto 1974, n. 386.

Sono a carico della regione tutte le spese per eventuali accertamenti, cure o degenze necessarie per il compimento della gravidanza nonché per il parto, riguardanti le donne che non hanno diritto all’assistenza mutualistica.

Le prestazioni sanitarie e farmaceutiche non previste dai precedenti commi e gli accertamenti effettuati secondo quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 5 e dal primo comma dell’articolo 7 da medici dipendenti pubblici, o che esercitino la loro attività nell’ambito di strutture pubbliche o convenzionate con la regione, sono a carico degli enti mutualistici, sino a che non sarà istituito il servizio sanitario nazionale.
Articolo 11

L’ente ospedaliero, la casa di cura o il poliambulatorio nei quali l’intervento è stato effettuato sono tenuti ad inviare al medico provinciale competente per territorio una dichiarazione con la quale il medico che lo ha eseguito dà notizia dell’intervento stesso e della documentazione sulla base della quale è avvenuto, senza fare menzione dell’identità della donna.

Le lettere b) e f) dell’articolo 103 del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con il regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265, sono abrogate.
Articolo 12

La richiesta di interruzione della gravidanza secondo le procedure della presente legge è fatta personalmente dalla donna.

Se la donna è di età inferiore ai diciotto anni, per l’interruzione della gravidanza è richiesto lo assenso di chi esercita sulla donna stessa la potestà o la tutela. Tuttavia, nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza.

Qualora il medico accerti l’urgenza dell’intervento a causa di un grave pericolo per la salute della minore di diciotto anni, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela e senza adire il giudice tutelare, certifica l’esistenza delle condizioni che giustificano l’interruzione della gravidanza. Tale certificazione costituisce titolo per ottenere in via d’urgenza l’intervento e, se necessario, il ricovero. Ai fini dell’interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni, si applicano anche alla minore di diciotto anni le procedure di cui all’articolo 7, indipendentemente dall’assenso di chi esercita la potestà o la tutela.
Articolo 13

Se la donna è interdetta per infermità di mente, la richiesta di cui agli articoli 4 e 6 può essere presentata, oltre che da lei personalmente, anche dal tutore o dal marito non tutore, che non sia legalmente separato.

Nel caso di richiesta presentata dall’interdetta o dal marito, deve essere sentito il parere del tutore. La richiesta presentata dal tutore o dal marito deve essere confermata dalla donna.

Il medico del consultorio o della struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, trasmette al giudice tutelare, entro il termine di sette giorni dalla presentazione della richiesta, una relazione contenente ragguagli sulla domanda e sulla sua provenienza, sull’atteggiamento comunque assunto dalla donna e sulla gravidanza e specie dell’infermità mentale di essa nonché il parere del tutore, se espresso.

Il giudice tutelare, sentiti se lo ritiene opportuno gli interessati, decide entro cinque giorni dal ricevimento della relazione, con atto non soggetto a reclamo.

Il provvedimento del giudice tutelare ha gli effetti di cui all’ultimo comma dell’articolo 8.
Articolo 14

Il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna.

In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l’interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi.
Articolo 15

Le regioni, d’intesa con le università e con gli enti ospedalieri, promuovono l’aggiornamento del personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sui problemi della procreazione cosciente e responsabile, sui metodi anticoncezionali, sul decorso della gravidanza, sul parto e sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza. Le regioni promuovono inoltre corsi ed incontri ai quali possono partecipare sia il personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sia le persone interessate ad approfondire le questioni relative all’educazione sessuale, al decorso della gravidanza, al parto, ai metodi anticoncezionali e alle tecniche per l’interruzione della gravidanza.

Al fine di garantire quanto disposto dagli articoli 2 e 5, le regioni redigono un programma annuale d’aggiornamento e di informazione sulla legislazione statale e regionale, e sui servizi sociali, sanitari e assistenziali esistenti nel territorio regionale.
Articolo 16

Entro il mese di febbraio, a partire dall’anno successivo a quello dell’entrata in vigore della Presente legge, il Ministro della sanità presenta al Parlamento una relazione sull’attuazione della legge stessa e sui suoi effetti, anche in riferimento al problema della prevenzione.

Le regioni sono tenute a fornire le informazioni necessarie entro il mese di gennaio di ciascun anno, sulla base di questionari predisposti dal Ministro.

Analoga relazione presenta il Ministro di grazia e giustizia per quanto riguarda le questioni di specifica competenza del suo Dicastero.
Articolo 17

Chiunque cagiona ad una donna per colpa l’interruzione della gravidanza è punito con la reclusione da tre mesi a due anni.

Chiunque cagiona ad una donna per colpa un parto prematuro è punito con la pena prevista dal comma precedente, diminuita fino alla metà.

Nei casi previsti dai commi precedenti, se il fatto è commesso con la violazione delle norme poste a tutela del lavoro la pena è aumentata.
Articolo 18

Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno. La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna.

Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l’acceleramento del parto.

Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita.

Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto.
Articolo 19

Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni.

La donna è punita con la multa fino a lire centomila.

Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi.

Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile.

Se dai fatti previsti dai commi precedenti deriva la morte della donna, si applica la reclusione da tre a sette anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da due a cinque anni; se la lesione personale è grave questa ultima pena è diminuita.

Le pene stabilite dal comma precedente sono aumentate se la morte o la lesione della donna derivano dai fatti previsti dal quinto comma.
Articolo 20

Le pene previste dagli articoli 18 e 19 per chi procura l’interruzione della gravidanza sono aumentate quando il reato è commesso da chi ha sollevato obiezione di coscienza ai sensi dell’articolo 9.
Articolo 21

Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 326 del codice penale, essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio, rivela l’identità – o comunque divulga notizie idonee a rivelarla – di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell’articolo 622 del codice penale.
Articolo 22

Il titolo X del libro II del codice penale è abrogato.

Sono altresì abrogati il n. 3) del primo comma e il n. 5) del secondo comma dell’articolo 583 del codice penale.

Salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, non è punibile per il reato di aborto di donna consenziente chiunque abbia commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della presente legge, se il giudice accerta che sussistevano le condizioni previste dagli articoli 4 e 6.

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…sull’assemblea nazionale del 24 febbraio

Ciao a tutte,
ci siamo riunite e abbiamo discusso
anche dell’assemblea plenaria del 24 febbraio domandandoci come riuscire
a gestirla collettivamente e con modalità che aprano maggiormente alla
costruzione di un nostro discorso politico indipendente e di una nostra
pratica collettiva di lotta, che tanto faticosamente stiamo portando
avanti. Il 23 e il 24 sono uno dei momenti e non l’unico o ultimo di
questo percorso. *
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GUIDA ALLA DECIFRAZIONE DEGLI STEREOTIPI SESSISTI NEGLI ALBI

CLICCANDO QUI puoi scaricarlo con le immagini e/o stamparlo 

Impariamo a decodificare le immagini destinate ai bambini
È attraverso le immagini che gli albi illustrati trasmettono una visione sessista
della famiglia e della società.
Se al momento del loro ingresso nella scuola materna, verso i tre, quattro anni,
i bambini e le bambine si sono già identificati nel loro ruolo sessuale e conoscono
il comportamento appropriato a ciascun sesso, i libri illustrati, supporto
essenziale nelle classi della scuola materna, perfezionano questa identificazione:
dicono con insistenza che la funzione delle donne è occuparsi del lavoro domestico
e dei bambini e quella degli uomini guadagnare denaro. Che gli uomini
sono responsabili, creativi, eroici, leali, capaci di amicizia disinteressata e che,
con l’eccezione della madre, fonte di attenzioni, consolazione e soprattutto di
servizi, e della bella principessa che sposa il principe, le donne sono meno intelligenti
e istruite degli uomini e sovente sono frivole, approfittatrici, spendaccione
e malevole.
Queste immagini stereotipate sono mutilanti per le bambine, ma immiseriscono
anche i maschietti. Di fatto la simmetria vuole che si rifiutino a un sesso le
caratteristiche e i comportamenti che vengono attribuiti all’altro.
Se i ragazzi sono attivi e coraggiosi, le bambine, secondo lo schema tanto rassicurante
della complementarità, non potranno che essere timide e passive.
Se le bambine sono affettuose e sensibili, ai maschi non rimane che mostrarsi
violenti.
Negli albi, le qualità “positive” sono più spesso attribuite agli uomini e ai ragazzi;
ma mentre le bambine vengono private di modelli attivi e autonomi, nello
stesso tempo anche il territorio dei ragazzi si riduce, limitandoli nell’espressione
dell’affettività, della sensibilità estetica e delle capacità manuali, spingendoli a
conformarsi ad un’immagine culturalmente povera della virilità.

I ruoli rigidi imprigionano e modificano la personalità. La libertà e la creatività
nel comportamento dipendono dalla possibilità di inventarsi, attingendo da
modelli diversi e ricombinandoli in un insieme originale che rappresenti una
vera scelta.
La semplificazione dei comportamenti dei personaggi femminili rende poverissime
le proposte rivolte alle bambine, lasciando loro solo due alternative: l’obbedienza
al modello tradizionale con la conseguente rinuncia ad ogni aspirazione
personale, o l’imitazione di modelli maschili con la rinuncia alla “femminilità”.
La terza opzione, quella di conciliare la vita di una donna con la vita professionale,
è una strada difficile di cui gli albi non danno minimamente conto e in cui
le ragazze saranno costrette a impegnarsi senza modelli di sostegno.
Al tempo stesso i ragazzi, privi di modelli femminili, non concepiscono l’esistenza
di donne che possano recitare nella società e nella propria vita altro ruolo che
quello, ancillare e consolatorio, che i libri suggeriscono.
Un lessico di immagini simboliche è indispensabile per comunicare con bambini
che ancora non leggono. Se attualmente esso serve, nella maggior parte dei casi,
a sostenere ruoli stereotipati e modi di vivere non ugualitari, nulla impedisce agli
autori e alle autrici di riconvertirlo nella proposta di nuove relazioni e comportamenti.
Una mamma che esce di casa con la sua valigetta portadocumenti, o che legge il
giornale seduta in poltrona, direbbe ai bambini che le madri possono esercitare
una professione, essere autonome, curiose, informate…
Un’immagine che mostrasse, senza ironia e senza grembiuli a fiorellini, un papà
che stira, direbbe ai bambini che dividere il lavoro domestico è normale…
Adela Turin 2003

Un lessico simbolico
Le immagini, facendo uso di un lessico simbolico che i bambini imparano a distinguere
molto presto, li istruiscono sui ruoli sessuati nella famiglia e nella società e
sulle caratteristiche psicologiche degli uomini e delle donne, dei bambini e delle
bambine, presentate come innate e naturali.
Ecco alcuni dei simboli più frequenti:
Il grembiule è il simbolo principale del ruolo femminile: il lavoro domestico, la cura
dei bambini. Il ruolo del grembiule non è quello di proteggere gli abiti: la madre
lo porta anche in strada e il padre fa la sua (piccola) parte di lavoro domestico
senza grembiule. Il grembiule è il vessillo casalingo della donna.
Altri simboli come secchi metallici, spazzoloni da gran tempo caduti in disuso,
scope di filacce, camicioni, fanno frequenti apparizioni nelle immagini, per mostrarci
madri che lavorano in condizioni penose e umilianti e per parlarci del carattere
immutabile del lavoro domestico, della sua perenne fatalità. Per dirci anche
che la tecnologia non è cosa da donne. L’immagine di una donna a quattro
zampe, con una ciocca di capelli negli occhi, che strofina il pavimento con uno
spazzolone è ancora presente negli albi.
La poltrona è maschile. Massiccia come un trono: luogo e simbolo del potere
domestico.
Nell’appartamento degli albi (il più delle volte ammobiliato come in un Ikea planetario)
la poltrona di papà è un elemento in distonia.
Sempre monumentale, sovente antica, è la poltrona del nonno, il trono di un potere
patriarcale inamovibile, ereditario.Paradossalmente il lavoro del papà è rappresentato
dal suo riposo… Aspettando la cena che “viene preparata” in cucina,
il papà si riposa dalle fatiche del solo lavoro che, con gli albi, i bambini imparano
a rispettare: il lavoro remunerato dei papà.

Il giornale (e la TV) riassumono tutto ciò che concerne il mondo fuori dalla casa: la
politica, la cultura, lo sport… domini tradizionalmente riservati agli uomini, in cui
sovente le donne si sentono fuori posto e disorientate.
Ma sono anche i simboli del diritto a non fare niente, a essere lasciati in pace: il papà
è intento a leggere il giornale (e/o a guardare la TV) mentre aspetta la cena.
Il giornale spiegato è il club maschile da cui le donne e le seccature della quotidianità
sono escluse, lo schermo dietro cui lui si può trincerare, preservando e isolando
il suo spazio. Rappresenta inoltre il suo diritto a fornire informazioni e condizionare
le opinioni, la sua autorità in materia di politica, di tecnologia, di attualità, di sport…
Negli albi la poltrona, il giornale e la TV sono simboli molto forti della dominazione
domestica del padre.
La valigetta simbolizza la professione: serve a fare di un uomo un dirigente, di
una donna, eventualmente, un’insegnante o una segretaria. Se a possederla è la
mamma (eventualità che gli albi non contemplano, ma che abbiamo testato), agli
occhi dei bambini diventa una borsa della spesa, una sporta.
Gli occhiali sono il sapere, l’autorità, l’intelligenza. Il dottore, l’avvocato, la maestra,
portano gli occhiali. Qualche volta ci dicono che una bambina è furba, ma poiché
resta inteso che ne risulta imbruttita, si ribadisce la tradizionale incompatibilità, in
una donna, di bellezza e intelligenza. La madre non ha gli occhiali quasi mai.

Colori, gatti, cani, nastri… dettagli significativi
I colori degli abiti sono fortemente codificati nelle immagini degli albi. Fanno parte
dei mezzi a disposizione degli illustratori per precisare il genere e il ruolo e per
descrivere il carattere dei personaggi.
Finché si tratta di bambini piccoli, celeste e rosa sono sufficienti, ma nel caso degli
adulti i colori costituiscono una vera e propria tassonomia.
I colori caldi sono femminili, quelli freddi e scuri sono maschili.
I colori pastello parlano di femminilità aggiungendo una sfumatura che può essere,
a seconda del contesto, l’età giovanile, la dolcezza, la timidezza e anche la
stupidità.
Il rosa e il lilla sono riservati alle civette ridicole (in genere zitelle); i colori “drammatici”
come il viola, il rosso scuro, il fucsia caratterizzano personaggi femminili
negativi o trasgressivi (la vicina pettegola, la bella donna eccentrica, la donna di
potere, la strega…).
Si usano il marrone spento e il grigio come colori dell’indigenza e/o la vecchiaia
di una donna o di un animale femmina.
Per gli animali vestiti, questo codice serve a precisare il sesso, l’età e la principale
caratteristica del personaggio: un fiocco rosa basta a dire che si tratta di un femmina
giovane e frivola e senza precisazioni nel testo si saprà se la coniglietta è
una ragazza civettuola, una mamma, una nonna, una vicina impicciona…
Entrando a scuola i bambini sapranno, davanti ai portamantelli dipinti di verde o
di arancione, dove appendere i loro cappotti a seconda del sesso.
Nell’araldica sessista degli albi, due animali: il gatto e il cane.
Legato al focolare e all’interno della casa, alle streghe e al diavolo, simbolo di infedeltà,
di pigrizia, di egoismo, di sensualità, ma anche di dolcezza, grazia e
bellezza, il gatto è il compagno preferito della donna e della bambina, mentre il
cane, che è un animale da spazi aperti, simbolo di lealtà, fedeltà, stoicismo, coraggio
e intelligenza, accompagna più sovente l’uomo o il ragazzo.
Marmellate, pasticcini, dolciumi parlano di femminilità.
Come la menzogna e l’astuzia, la ghiottoneria è assegnata alle donne nella grande
distribuzione dei peccati capitali. E come tutto ciò che si vuole contrassegnare
al femminile, i dolci sono coperti di glassa rosa e sovraccarichi di decorazioni.
Anche le scarpe hanno la loro utilità: le pantofole in cui sprofondano i piedi della
madre, indicano ai bambini che lei non si muoverà da casa, mentre le scarpe di
papà dicono che lui uscirà per andare al lavoro.

Lo stesso messaggio del grembiule portato anche in strada:
la mamma è fuori, ma in realtà non ha mai lasciato la casa.
Festoni, fiocchi, volant, significano frivolezza, civetteria,
scemenza. I fiori servono a caratterizzare le femmine nel
caso degli animali umanizzati: eccoli spuntare sul cappello
e qualche volta direttamente dal cranio di conigli e foche.
Nella loro versione più ingenua i fiorellini stanno a significare
semplicità di spirito, sprovvedutezza.
I testi del XIX secolo spesso paragonavano le fanciulle a
“piccoli fiori che un soffio fa appassire…” in racconti che le vedevano bionde e
pallide, giacenti in bare di cristallo, come la bella addormentata.
Dagli abbecedari e libri di lettura del XIX secolo, fino agli albi dei giorni nostri,
le immagini destinate ai bambini hanno lo scopo di istruirli suoi ruoli sessuati.

Un simbolo molto forte: la finestra, ripropone il tema della passività della ragazzina.
Limite estremo di un interno, la finestra è il luogo della nostalgia, dell’attesa,
della mestizia. Principesse prigioniere nella torre del castello, fanciulle romantiche
in attesa del grande amore, bambine malinconiche, guardano scorrere la vita
senza lasciare il loro posto: l’interno della casa.
L’ingresso negli albi delle “nuove bambine”, robuste e sovente brutali, del tipo
“maschiaccio” (è l’alternativa che più di frequente gli autori trovano alla piccola
ebete di un tempo) rende la metafora burlesca.
Se fino a poco tempo fa le immagini mettevano in ridicolo le donne di potere (direttrice
di scuola dittatoriale, regina dispotica, vicina autoritaria) così come le vecchie
zitelle (il nubilato negli albi non è visto come una scelta possibile per la donna)
questi modelli alternativi hanno lasciato il posto al solo ruolo femminile accettabile:
quello della madre-serva.
Ma l’assenza più flagrante negli albi è quella della donna medica, avvocata
(professioni già molto femminilizzate), autista di autobus, pilota d’aereo, architetta,
ingegnere, direttrice d’orchestra, dirigente, ministra, presidente della
repubblica…
E soprattutto quella della madre che ha anche altre preoccupazioni e occupazioni
oltre il lavoro domestico e quella della coppia che divide equamente il lavoro
quotidiano e la cura dei bambini.

Le immagini dei libri illustrati: una testimonianza
storica sui ruoli nella famiglia
In tutte le classi sociali, l’educazione dei bambini, dopo
la prima infanzia, ha per lungo tempo rispettato la
separatezza dei sessi.
Nelle classi agiate la madre si occupava dell’educazione
delle bambine e il padre della formazione dei
ragazzi. Nelle classi popolari, la madre istruiva le figlie
nelle incombenze domestiche e materne e il padre iniziava
i figli al suo mestiere.
Le trasformazioni che seguirono lo sviluppo capitalista
e la sparizione delle imprese famigliari provocarono la
dissociazione tra lavoro e vita domestica.

L’immagine della madre
Nelle storie che la stampa per adulti destinava ai
bambini (prima dell’esplosione della letteratura infantile
all’inizio del XX secolo) sovente si vedeva una
madre povera che moriva, affidando alla maggiore
delle sue figlie la cura della casa, del padre e dei fratelli
più piccini.
Era la constatazione di una realtà: l’ignoranza dell’igiene,
ma soprattutto lo stato di salute delle donne
nelle campagne, mal nutrite, sfiancate dal lavoro,
continuamente incinte, uccideva le madri prematuramente.
Presto i vedovi si risposavano e in queste famiglie
ricomposte, ancora così frequenti nel XIX secolo, il
padre, innamorato della sua seconda sposa molto più
giovane, non vedeva di buon occhio i figli del suo
primo matrimonio.
Dopo il Medioevo i racconti di fate danno conto di
queste situazioni: la “madre buona” moriva lasciando
al suo posto la seconda moglie del padre, la
“matrigna”.
In un racconto del XIX secolo, si racconta senza mezzi
termini ai bambini che un pugno del padre (brav’uomo,
ma irascibile) ha causato la morte della moglie
ammalata di tisi, la quale, morendo, chiede alla figlia
più grande di avere buona cura del babbo.
La sua preoccupazione è il frutto dell’amore, non
necessariamente del perdono. Cosa ne sarebbe stato
dei figli se il padre fosse, anche lui, scomparso?
Fino all’inizio del XX secolo la maternità è rimasta
pericolosa.
Sofferenze e rischi della maternità erano visti dai libri
come equivalenti a quelli che gli uomini affrontavano
in guerra e così erano presentati ai bambini…

La madre dei bambini dei XXI secolo: una serva, sovente
disperata, che perde il controllo, che diventa violenta.
Qualche volta una megera…
A partire dagli anni Sessanta, quando le donne entrano
numerose nel mercato del lavoro, l’immagine della madre
negli albi per bambini ha cominciato a deteriorarsi fino a
diventare la più degradata della storia.
Un esempio estremo è la madre di “Benny” (Lindgren e
Lanström, 1999, al fondo della pagina) che in tutto il libro
non fa che sfaccendare nelle ripugnanti condizioni motivate
dalla scelta del personaggio.
Se l’immagine della madre è stata un tempo quella di una
casalinga dal grembiulino civettuolo che confezionava torte
per i suoi bambini, gradualmente è diventata quella di una
schiava domestica distrutta dalla fatica, interminabilmente
occupata dalle faccende, spesso tecnologicamente incapace,
impotente o in preda al panico di fronte a un aspirapolvere che
inghiotte il gatto o a un ferro da stiro che si mette a fumare.
La madre sottoproletaria, esausta e miserevole è talvolta sostituita,
negli albi più “attuali”, da una giovane donna affranta
di cui si potrebbe intuire una certa avvenenza se solo trovasse
il tempo di pettinarsi, se non avesse l’orlo della gonna
scucito, se lasciasse perdere il grembiule e le pantofole, se
fosse meno stanca e di miglior umore.
Che queste immagini illustrino i dati che ci sono noti sulla
divisione del lavoro domestico non giustifica il fatto che gli
albi banalizzino e legittimino una situazione intollerabile.
Assumerne l’evidenza agli occhi dei bambini, senza criticarla,
significa contribuire alla sua eternizzazione.

La visione della famiglia attuale
L’immagine della famiglia che gli albi offrono ai bambini non prevede scene in cui i
genitori sono tra loro in relazione affettiva o amorosa, non li mostra mai intenti a
conversare o a divertirsi insieme. Il padre è assente e non lo si vede se non nell’inevitabile
scena del pasto serale.
La drammaturgia di questo momento cruciale nella vita della famiglia vuole che la
madre, in piedi di fronte al marito e ai figli seduti a tavola, presenti gli alimenti con
un gesto di oblazione quasi liturgico. Un’immagine di cui il significato simbolico è
evidente, che sembra procedere da un’antica cultura rurale.
Il rituale comporta sovente una zuppiera, che la madre porta come un ostensorio:
si comprende che è il simbolo dell’offerta che lei fa alla famiglia della sua vita
intera. Il gesto è tanto più significativo se si pensa che la zuppiera è un oggetto
desueto, che la maggioranza dei bambini (soprattutto quelli, numerosissimi, la cui
mamma di ritorno dal lavoro, prepara un pasto in gran velocità) non ha mai visto.

Le due madri
Ai due estremi di questa ristretta gamma di madri stanno la madre di un ragazzo e
quella di una bambina. La madre del maschio è la “madre serva”. La sua immagine
più estrema è quella di una donna senza età, indigente, scarmigliata e stralunata.
Giovane e sfinita o miserabile e non più giovane, la madre di un maschio è totalmente
al servizio del figlio. Il suo ruolo non è mai di educatrice: nella sua ignoranza
e banalità non è in grado di insegnargli nulla, le lezioni vengono tutte dal padre.
La madre della bambina invece è correttamente abbigliata, disponibile, pronta a
impartire un’educazione. La si vede insegnare alla figlia come fare le torte, disporre
i fiori in un vaso, portarla con sé quando va a fare acquisti di abbigliamento.
Si capisce che è incaricata di una missione: trasmettere il suo savoir-faire di padrona
di casa e, in tal modo, perpetuare il ruolo.
Questo doppio personaggio di madre, che incoraggia nelle bambine l’identificazione
con il ruolo e nei maschi il disprezzo per le caratteristiche descritte come
naturalmente ed esclusivamente femminili (in primo luogo impersonate dalla
madre) è lo strumento più flagrante, e forse uno dei più efficaci, usato nell’impresa
che gli albi conducono da secoli, di condizionare i bambini ai ruoli sessuati.

Spazi sessuati nella casa…
Ai ruoli del padre e della madre corrispondono gli spazi della casa: la madre è rappresentata
in cucina, il padre sulla “sua” poltrona in soggiorno o in sala da pranzo.
Se per caso si vede il padre in cucina, c’è da scommettere che sta asciugando un
piatto (gli albi, che ignorano l’esistenza delle lavastoviglie, stentano a trovare per il
papà un altro lavoro di casa che non sia la rigovernatura!).
Certi libri presentano, a distanza di
alcune pagine, immagini simmetriche
che insistono sui ruoli: la
mamma in cucina (panieri, legumi),
papà alla scrivania (matite, occhiali,
calcolatrice…)

Il lavoro
Chi fa che cosa nella strada, negli aeroporti, negli studi medici, negli ospedali,
sugli aerei, nei supermercati, nei teatri, negli studi televisivi e in quelli degli artisti,
nei campi sportivi, alle sfilate di moda, nei laboratori?
Nei libri che insegnano ai bambini a conoscere la vita della città, si vedono spazi
urbani (piazze, mercati ecc.) occupati da uomini che esercitano ogni sorta di mestiere
e da alcune donne che chiacchierano, fanno acquisti o portano a passeggio
i bambini.
In questo esempio: 35 uomini, 20 mestieri (meccanico, cuoco, camionista, fornaio,
salumaio, antiquario, cineasta, fotografo, attore, produttore cinematografico,
terrazziere, giornalaio, gasista, rappresentante, uomo d’affari, lattaio, pompiere,
insegnante…) e 5 donne caricaturali: due sono obese e fanno shopping, una dà
da mangiare agli uccelli, due chiacchierano ignorando le proteste del bambino
che le accompagna.

I padri che “aiutano”
Negli anni Ottanta una folla di padri ha cominciato, negli albi, ad “aiutare”.
Ridicolizzati da un grembiule troppo piccolo, qualche volta a fiorellini, li si vedeva
lavare i sempiterni piatti o devastare la cucina per preparare un pasto se circostanze
veramente eccezionali lo richiedevano.
È il caso di un papà che la malaugurata angina della mamma obbliga a fare nel
corso di una domenica ciò che la mamma fa tutti i giorni della settimana (il sabato
sono le due bambine ad occuparsi della casa “come vere donnine”).
All’ultima pagina lo si vede “affranto” sprofondato nella sua poltrona.
“Ma per fortuna la sera la mamma è quasi guarita e già scende dalla sua stanza…”
dice il testo.
Questo padre ridicolo e inetto spiega ai bambini che è stato gentile, di fronte
all’emergenza, ad uscire dal suo ruolo e dalla sua dignità, ma che occuparsi dei
bambini e della cucina, anche per un giorno solo, lo sfinisce. Il che dimostra che
non è fatto per questi lavori.

I "nuovi padri"
o il recupero del legame affettivo con i bambini
L’ondata di nuovi padri degli anni 2000 non ha portato soltanto dei papà plausibili.
In mancanza di nuove madri e di nuove famiglie ugualitarie, gli albi ne fanno
spesso degli scapoli strampalati o dei divorziati patetici
Ma può capitare anche di vedere dei veri padri che tengono i loro figli (preferibilmente
ragazzi) teneramente in braccio.
Possiamo solo rallegrarcene, ma ci domandiamo perché non li si vede mai cambiare
i pannolini, fare il bagno, lavare o nutrire i bambini, spingere il passeggino…
E’ vero che certi albi ci spiegano che questi padri affettuosi hanno soltanto il sabato
da dedicare ai bambini (mentre la mamma si occupa di tutto il resto?)
Anche se qualche volta si vede apparire una famiglia conviviale come in "Il
segreto di Marie” di David Mc Kee… sarebbe vana la ricerca, negli albi, di una
coppia che faccia i lavori di casa insieme.

109 bambini e 95 bambine di età compresa tra i sette e i dieci anni
hanno confermato, nel 2003, l’efficacia degli stereotipi sessisti
La prima immagine presentata ai bambini aveva caratteristiche volutamente
ambigue: un orso grande e grosso, privo di qualunque caratteristica femminile,
anzi di tratti mascolini, ma vestito da un grembiule con la pettorina.
Quest’ultimo è decisamente l’elemento prevalente. Lo
stereotipo che fa dire a 153 bambini su 204 che il personaggio
è una mamma e che ne hanno la certezza
per via del grembiule.«I maschi non mettono il grembiule,
perché il grembiule è da femmine».
«I papà non cucinano. Se fosse il papà andrebbe a comprare
una pizza!»
Nei rarissimi casi in cui l’orso col grembiule viene
riconosciuto come papà orso intento a cucinare, l’intervistato
precisa che mentre lui cucina «la mamma fa
le pulizie e gli orsetti sono fuori in giardino a giocare»,
oppure una gerarchia nei ruoli di genere è ristabilita
in questo modo: «Il papà cucina con il grembiule e
intanto la mamma lava per terra».
Nei casi in cui l’orso non viene riconosciuto come personaggio femminile, le
motivazioni sono spesso legate alle sue caratteristiche fisiche (corporatura
imponente, unghioni, denti) o di comportamento: l’orso sembra rivolgere a
qualcuno un gesto piuttosto imperioso. «Non è un grembiule è un tovagliolo e
l’orso sta dicendo a sua moglie: “Ho fame. Portami la cena!”».
Qualche volta emerge una conflittualità: se l’orso fosse maschio starebbe dicendo
«Non ho nessuna voglia di cucinare», mentre se fosse femmina direbbe: «Devo
sempre fare tutto io in questa casa, la pulizia, cucinare…» sembra di assistere a
una discussione troppe volte ripetuta.
Ed ecco invece un’espressione significativa a proposito dell’oblatività affettiva
del ruolo materno: «Se l’orso che cucina è il papà, ciò che dice agli orsetti è di non
mettere in disordine la cucina. Se invece è la mamma, dice di stare attenti a non
farsi male.»
Infine, sempre nell’ambito di quel 25% che all’orso col grembiule ha attribuito
il genere maschile, 11 dei nostri intervistati lo hanno immaginato impegnato in
un’attività professionale e il grembiule è diventato quello di un macellaio, di un

fruttivendolo, di un cuoco, oppure: «L’orso ha una bella faccia da maschio. È un
pizzaiolo che grida “Ora faccio una bella Margherita!”».
Se il grembiule aveva rappresentato uno stereotipo
femminile largamente riconosciuto, la seconda immagine
proposta ai bambini è stata, ancora più massicciamente,
accreditata alla mascolinità. Di nuovo un
orso, privo di connotazioni di genere, ma impegnato
nella lettura di un quotidiano.
«La mamma non ha mai il tempo di leggere. Deve fare
i lavori…» E di che cosa si interessa il papà? «Le notizie,
ma soprattutto lo sport». E la mamma non si interessa
delle notizie? «Nooo… La mamma il giornale lo
guarda la sera, quando ha finito tutti i lavori» Che cosa legge nel giornale la
mamma? «Mah… Le diete. Le ricette. La moda. I consigli per la salute dei suoi
bambini».
Sì, anche quando finalmente trova un momento per leggere, la mamma è sempre
intenta a pensare al bene della famiglia, alla salute e al benessere dei figli, ai
manicaretti che potrà preparare per rendere tutti felici.
In sostanza nell’immaginario dei bambini (184 su 204) c’è una rigida divisione
dei ruoli sessuali: estroverso quello del padre, che legge il giornale, o per informarsi
sull’attualità, o per distrarsi con le imprese sportive dei suoi campioni. In
quest’ultimo caso la lettura non è solamente estroversa, ma ha anche un carattere
edonistico di autogratificazione. Introverso, centripeto, orientato sul piacere
di altri e sul bene della famiglia, è invece nell’immaginario dei bambini, l’interesse
della madre.
Ma sulla lettura del giornale c’era una domanda di
riserva con un’immagine appropriata: all’orso di
prima era stata messa una collana che ne femminilizzava
decisamente l’immagine.
Ma in molti casi neppure con la collana l’orso diventa
un’orsa o il papà diventa la mamma: «È il papà che ha
messo una collana per sembrare più bello» «È il fratello
maggiore, che è “strano” e molto vanitoso». «È un cane»
ha affermato con decisione un ragazzino di nove anni,
«si vede dal collare». Davvero? E che cosa legge? «Un
giornale per cani» è stata la risposta, in cui si intravvedeva una considerazione

abbastanza scarsa per un’intervistatrice che faceva domande così ovvie.
«È un’orsa, però è strana se si ferma a leggere durante il giorno». Se la mamma sta
leggendo il giornale, è perché in quel momento i bambini sono a scuola, o a dormire,
e il papà è a pesca o al lavoro. Insomma perché la mamma possa avere un
attimo di pace, un momento da dedicare a se stessa, bisogna che tutta la famiglia
sia addormentata o altrove. Se poi si ha il riconoscimento dell’orso con la collana
come femmina, è una signorina, una sorella maggiore, una studentessa,
un’orsa giovane . Un esame sommario fa contare 26 risposte di questo tipo, che
fanno capire come i bambini siano ben consapevoli della fatica quotidiana che
la maternità implica, ma la considerino un fatto naturale.
I papà lavorano e lavorare, si sa, stanca. Per questa
ragione questo stanchissimo orso che riposa in poltrona
è il più delle volte definito un papà.
Non sempre. Qualche volta anche la mamma è stanchissima,
ma raramente può permettersi di riposare
in poltrona.Ci sono però altre figure: il nonno, un fratello,
un amico del fratello, un bambino. Bisogna
osservare che l’orso giovane è una femmina in soli 3
casi su 43 e questo ci porta più o meno alla proporzione
che abbiamo tra il papà e la mamma: 112 a 12.
Nel caso del giovane orso si deve osservare che si considera normale da parte sua
il fatto di essere un completo scioperato. Come mai è così stanco? «È stanco perché
ha giocato tutto il giorno», «È stanco perché la notte prima è andato in giro con
gli amici ed è rincasato tardi».
Quando l’orso ha un aspetto più vigile, meno rilassato,
l’attribuzione alla mamma diventa un po’ più frequente
e cala quella al giovane orso. Tuttavia: «Sembra
una femmina, però sono i maschi che stanno vicino al
camino e si scaldano. Le donne vanno a far la spesa e
non si siedono davanti al fuoco. Questa sta seduta, ma è
anomala». «Quando diventano grandi le femmine
devono stare composte e si riposano solo quando vanno
a dormire. Le mamme orse non dormono di giorno.
Quando si riposano poi non si “stravaccano”, ma stanno
sedute». «Questa è un’orsa femmina che si sta alzando per andare a vedere i bambini,
poi va in bagno e si mette a pulire.»

Lo sguardo dell’orso è rivolto verso qualcuno, o qualcosa. Che cosa sta guardando?
Se l’orso è il papà la risposta più frequente è «la televisione».
Sovente intorno alla poltrona i bambini immaginano un soggiorno, arredato
con un divano e magari altre poltrone.Ma in soli 4 casi su 204 questo, che sembrerebbe
caratterizzato come spazio di relazione, ospita personaggi intenti a
conversare e in tutti i quattro casi la conversazione si svolge con degli amici o dei
parenti che sono venuti in visita.
Mai, in nessun caso, la conversazione ha luogo tra i genitori o tra i genitori e i
figli. Sembra insomma che la comunicazione all’interno della famiglia sia davvero
scarsa. In un solo caso i genitori sono stati immaginati seduti insieme sul
divano,mentre un figlio stava sulla poltrona, ma non stavano parlando: guardavano
una soap-opera alla TV.
Il passaggio dagli orsi agli esseri umani ha reso ancora
più immediata l’individuazione dei personaggi
all’interno di una rete di rapporti famigliari di cui i
bambini hanno esperienza.
Qui lo stereotipo da riconoscere era il collegamento
della figura ad un’attività professionale. In particolare
la valigetta portadocumenti lo suggeriva, ma anche
l’abbigliamento elegante e l’atteggiamento formale.
«È un dottore» «È un avvocato» «È un tecnico dei computer
». Ma anche «È un politico» «È un direttore» «È
un banchiere». Su quest’ultima professione bisogna
osservare che in alcuni casi i bambini non fanno distinzione
tra “banchiere” e “bancario”.
Molti hanno attribuito all’uomo sulla porta la professione del loro papà: «È un
commerciante» «È un muratore» «È un idraulico» «È un rappresentante, infatti
nella valigetta ha il suo campionario, da mostrare ai clienti».
Da dove viene? «Dall’ufficio» «Dal suo lavoro» «Dall’aver fatto visita a un un
cliente»
«La porta è la porta del suo ufficio, dove lo aspetta la sua segretaria» «In ufficio lo
aspetta il suo direttore per una riunione»
Quando il personaggio è sulla porta di casa, di ritorno dal lavoro, i bambini
immaginano che la sua famiglia lo attenda: «I figli stanno facendo i compiti e sua
moglie ha preparato la cena» E lui che cosa fa? «Si cambia d’abito, si lava le mani,
cena e poi va a dormire».

L’ultima immagine della serie era la versione femminile
dell’immagine precedente: una giovane donna in
tailleur, in atto di aprire una porta, con in mano una
valigetta portadocumenti.
Anche in questo caso l’abbigliamento e la presenza
della valigetta fanno identificare una figura di professionista,
ma la gerarchia riappare se le due figure vengono
considerate in sequenza: lui avvocato, lei segretaria;
lui medico, lei infermiera, lui direttore, lei maestra.
Non sempre è così. Qualche volta viene attribuita ad
entrambi i personaggi la stessa professione e, sovente,
ai due personaggi viene attribuita la stessa professione dei genitori degli intervistati
o il lavoro che vorrebbero fare da grandi: «È una scrittrice e nella valigetta
ha il suo ultimo romanzo» Arrivando a casa che cosa farà, questa scrittrice?
«Toglie le scarpe e la giacca e si mette al computer. Poi, quando arriva a casa anche
suo marito, va a preparare la cena».
È affascinante la concretezza e la precisione con cui i bambini sanno spiegare il
funzionamento della divisione del lavoro nella famiglia e nella società.
Nessuno crede che il lavoro domestico si faccia da solo, come per magia. Tutti
sanno bene che è dalla mamma che dipende il buon funzionamento della vita di
tutta la famiglia. La donna sulla porta «È una signorina che entra in casa, fa l’impiegata.
Trova tutto ordinato e il tavolo già apparecchiato dalla sua mamma. Non
è sposata».
Insomma la donna, finché è giovane, può beneficiare di alcuni servizi, a spese di
un’altra donna (di solito la madre), ma è evidente che non appena diviene lei
stessa moglie e madre, questi privilegi diventano un ricordo. Il dispositivo culturale
che sottostà alla divisione del lavoro attraverso il genere è talmente ampio
ed efficace da apparire come l’ordine naturale delle cose: «È una mamma. È tornata
a casa dal lavoro in anticipo per lavare, stirare e occuparsi dei figli. Si vede
dall’espressione del volto. Si vede che è felice».
Non adattarsi al dispositivo culturale può significare solitudine e anche questo
fatto è tutt’altro che incomprensibile ai bambini.
Ferdinanda Vigliani
Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile
© Du côté des filles
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QUANTE DONNE PUOI DIVENTARE?

Posted in materiali5 | Comments Off on GUIDA ALLA DECIFRAZIONE DEGLI STEREOTIPI SESSISTI NEGLI ALBI

DENUNCIAMO L’OFFENSIVA SESSISTA da Quelle che non ci stanno

“Quelle che non ci stanno” nasce nel settembre 2006 in seguito al tentato stupro subito da una di noi.
Nasce dall’esigenza di alcune donne e lesbiche di nominare lo stupro
per quello che è e contrastare le definizioni false e manipolate che ne
vengono date.
Nasce dall’esigenza di diventare protagoniste attive e non più
spettatrici passive contro la violenza che quotidianamente i nostri
corpi subiscono.
Abbiamo scelto la pratica della denuncia pubblica e separatista
attraverso la nostra presenza nelle piazze e nei luoghi in cui le donne
sono state stuprate.
La nostra solidarietà si traduce in forza, la forza di reagire,
denunciare e invertire la logica strumentale del patriarcato che ci
vuole solo vittime.
Solo tra donne pensiamo sia possibile esprimere la volontà e l’energia
che ci permettono di uscire dai ruoli e dai legami sociali tradizionali
dove si annida la violenza che subiamo quotidianamente.
Ci hanno insegnato ad essere accondiscendenti e a interiorizzare come
naturale un comportamento docile e disponibile. Ci hanno insegnato ad
anteporre sempre e comunque gli altri a noi stesse, ad annegare nella
tolleranza, ad avvelenarci nel perdono.

Non inghiottiamo qualsiasi umiliazione. Non inibiamo l’odio.
    REAGIAMO
Non abbiamo paura di essere etichettate pazze o isteriche quando reagiamo.
Più diventiamo consapevoli che lo stupro è parte integrante del nostro
sistema sociale, più cresce il desiderio di ricercare e creare spazi di
socialità appaganti. Non  siamo spinte dall’allarmismo
emergenziale che sbatte lo stupro nelle pagine dei giornali quando non
ha una notizia da copertina e per questo la nostra lotta non si fermerà
quando qualcuno ci infermerà dalle testate degli stessi giornali che
l’emergenza è rientrata o quando il silenzio tornerà a coprire la
guerra contro le donne nelle case..
Siamo ben coscienti che stampa ed istituzioni si destano da un sonno secolare solo quando non hanno scelta.
Si ricordano dei corpi delle donne solo per strumentalizzarli a scopo
economico o per legiferare, utilizzando termini come “tutela del
soggetto debole”, con lo scopo di stringere ancora di più la morsa del
controllo sociale.
Non ci sentiamo soggetto debole e non ci sentiamo oggetto da vendere o da acquistare.
I nostri corpi da sempre sezionati e studiati oggi si dimenano e occupano spazi.
Ci propongono lo stupro come se fosse una cosa che è nella natura
stessa del rapporto uomo-donna, ma noi non abbiamo nessuna intenzione
di interiorizzarlo come normalità.
Pensiamo di vivere a livello planetario una guerra tra i sessi,
eclatante, evidente, ma non dichiarata, che miete milioni di vittime.
Vediamo che la violenza contro le donne e le lesbiche produce terrore,
paura e morte e quindi la chiamiamo con il suo nome: terrorismo.
Donne uccise perché donne.
Questa strage quotidiana, occultata dal potere patriarcale attraverso i
suoi strumenti (vaticano, stato, stampa, etc), noi la definiamo
Femminicidio.
Femminicidio è un termine politico che ci appartiene e rende giustizia
a ogni donna e lesbica, che dopo essere stata stuprata e uccisa, è
stata relegata nel dimenticatoio del delitto passionale, o ancora
peggio, nella sfera del privato.
Sappiamo bene che la prima causa di morte per le donne nel mondo è l’omicidio commesso da un uomo.
Omicidio di donne che raramente avviene nelle strade ad opera di
sconosciuti. Gli autori sono quasi sempre conoscenti, amici, mariti, ex
fidanzati, fratelli, suoceri che hanno in comune l’appartenenza a un
genere, quello maschile, e il movente, impedire l’autodeterminazione
della donna.
Lo stupratore raramente è un deviante. Quasi sempre è un uomo qualunque
che fa quello che gli è stato insegnato, ed agisce il suo privilegio di
maschio virile con il consenso, anche se nascosto, dei suoi amici.
Lo stupratore è il braccio armato di una società che ha fatto della paura del diverso la sua forza.
Lo stupro è un atto che riproduce la supremazia dell’individuo
sull’individuo e della società sulle donne. E’ l’accentuazione
distruttiva di una violenza più generale e quotidiana.
Chi violenta e uccide è sempre maschio, garantito e protetto dall’appartenenza al genere maschile.
Uccidere una donna e una lesbica oggi in qualsiasi parte del mondo è
possibile grazie alla copertura continua fornita da chi riconosce in
questo metodo lo strumento più efficace per zittire, annientare e
rendere invisibile ogni forma di reazione che le donne attuano.
Infatti, la violenza più profonda, la più radicata è quella antecedente
e successiva al singolo episodio di stupro. L’aspetto peggiore è la
mancanza di solidarietà e l’esplicita ostilità che la società dimostra
alla vittima e alla donna “emancipata”.
Lo stato e la chiesa in primis sono responsabili di leggi e anatemi che
ufficializzano la supremazia del maschio sulla donna, basano sulla
subordinazione della donna il successo del sistema economico e del
controllo sociale al punto di vista economico e sociale, e fondano sul
possesso dei corpi delle donne i privilegi maschili.
La chiesa distribuisce benedizioni su tutta la normativa e le forme di interdizione attuate contro le donne e le lesbiche.
       Riteniamo importante ritornare ad
attraversare e a riprenderci gli spazi che ci vorrebbero interdire con
la violenza, e ricordare a chi agisce violenza che donne e lesbiche non
dimenticano.
        Per questi motivi abbiamo manifestato pubblicamente:
•    Al parco nord di Bologna alla festa dell’Unità, il
10 settembre2006, luogo all’uscita del quale è stata aggredita Mara.
•    Al quartiere Cirenaica di Bologna, il 1 ottobre
2006, quartiere nel quale è stata violentata e picchiata una ragazza.
•    In zona universitaria nei giorni successivi
all’aggressione, zona di frequentazione dei due studenti che hanno
aggredito la ragazza in Cirenaica.
•    Nel centro di Bologna sotto le due torri luogo di
visibilità e di passaggio di tante aggredite e di tanti aggressori.
•    Ai giardini margherita, il 29 ottobre 06, parco nel
quale è stata massacrata di botte una ragazza solo per non aver
assecondato gli uomini che la importunavano.
•    A Crevalcore, il 2 dicembre 2006 luogo di residenza di Luigi Maraia, aggressore di Mara
•    Il 27 gennaio 07, in piazza dell’Unità, in seguito
all’aggressione avvenuta i primi di gennaio tra via Stalingrado e il
Centro Commerciale Minganti, e per ricordare lo stupro in via Tibaldi
di due anni fa.
•    L’ 8 marzo 2007, in piazza Nettuno con una mostra,
“Le armi di una donna > o …ogni tanto un diversivo”, che vuole dare
voce alla capacità di reazione delle donne, la cui idea abbiamo preso
in prestito dalle compagne di Kassel.
•    20 Aprile 2007, presidio alla Cirenaica, per
opporci al concerto di Cagliari indetto per raccogliere fondi per gli
stupratori di via Libia.
•    Il 18 Settembre, davanti al Tribunale di Bologna,
per portare solidarietà alla donna che ha denunciato e per riprendere
la pratica di essere presenti ovunque una donna si ribelli alla
violenza.
•    Ottobre 2007 presidio all’Ex-Mercato di via
Fioravanti per denunciare la presenza degli amici degli stupratori
della Cirenaica in un luogo di movimento e contro il sessismo negli
spazi sociali.
•    Domenica 10 Febbraio 2008 presidio davanti alla
Chiesa dell’Antoniano –quella dello Zecchino d’Oro- contro il convegno
promosso dal Movimento per la Vita e da Federvita “Cose da Bios”, in
difesa della autodeterminazione di donne e lesbiche
•    Il 16 febbraio davanti all’ospedale S.Orsola,
presidio, che si trasforma in corteo spontaneo, contro l’incursione
della polizia in un ospedale napoletano per accertare la legalità di un
aborto terapeutico.
Crediamo, a partire dall’analisi del reale, che oggi l’autodifesa sia
un’opzione irrinunciabile per ogni donna e lesbica che abbia
l’ambizione di tenere lontana da sé la violenza. Siamo convinte che il
corpo possa trasformarsi da luogo dell’attacco a luogo della difesa,
così come siamo persuase che solo la solidarietà fra donne e lesbiche e
l’attenzione che prestiamo a noi stesse ed alle altre possa garantirci
e tutelarci.
Riconosciamo enormi responsabilità alle istituzioni locali e nazionali
che intervengono raramente con sostegni concreti a chi subisce
violenza, che sono incapaci di mantenere i finanziamenti alle
associazioni di donne che agiscono da tempo sul territorio e che
ostacolano da sempre ogni iniziativa autorganizzata delle donne e delle
lesbiche, sottraendo loro spazi separatisti di socialità e di
confronto.

Nonostante la guerra che ci fanno…
continuiamo ad esistere
Quelle che non ci stanno
maragridaforte@inventati.org

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Cyberfemminismo e queer theory

1.  Queer Theory

Cercheremo ora di mettere in luce come i paradigmi teorici e gli strumenti dell’azione politica della queer theory si ritrovino in molti studi che hanno interessato le potenzialità del cyberspazio come luogo di sperimentazione di identità sessuali alternative. La riflessione cyberfemminista, fin dalle origini, si è largamente interessata delle politiche identitarie rese possibili dallo spazio virtuale. Come avviene la rappresentazione dei sessi nella realtà virtuale? L’esperienza d’identità sessuali multiple, che spesso si realizza nelle comunità virtuali, è uno strumento utile per mettere in discussione il legame fra sesso, genere e desiderio sessuale? Si può paragonare la costruzione di un avatar ad una masquerade queer?

1.  Queer Theory

La prima studiosa che adottò il termine queer per riferirsi alla teoria sull’omosessualità gay e lesbica fu Teresa De Lauretis, che, nel 1990, parlò di queer theory durante un convegno. La scelta del termine – spiega De Lauretis – nacque dall’esigenza di evitare aggettivi quali “lesbico-e-gay” e “lesbigay”, al fine di scoraggiare l’identificazione fra omosessualità lesbica e gay (differenti per storia, tradizione e simbologia) e la loro caratterizzazione unicamente per contrasto con l’eterosessualità[1].

Con queer theory oggi s’intende la più recente evoluzione degli studi gay e lesbici, che si interessano, fra l’altro, di fenomeni come il travestitismo, l’ermafroditismo, l’ambiguità di genere, le operazioni per il cambiamento di sesso. La ricerca opera nella direzione di mettere in crisi il concetto di sessualità “naturale”[2]. Dimostrazioni e decostruzioni accademiche da un lato e performance di varia natura dall’altro sono gli strumenti adottati per rivelare l’incoerenza dei tre termini – sesso, genere e desiderio – sui quali si fonda la normalizzazione dell’eterosessualità.

Il percorso che conduce all’elaborazione della queer theory parte da autori come Foucault, Irigaray, Kristeva per arrivare ai suoi punti di riferimento teorici quali Gender Trouble (1990) e Corpi che contano (1993) di Judith Butler.

La riflessione di Butler riguarda il potere. Ella individua nell’economia dell’eterosessualità fallica l’atto fondativo dell’ordine simbolico patriarcale, che esercita il suo dominio mediante il potere performativo del linguaggio: la citazione e la ripetizione della norma producono ciò che viene nominato, non si limitano a significarlo.

La critica al soggetto e all’identità ha fra i suoi massimi esponenti Michael Foucault, che ricostruisce una genealogia del soggetto fondata sull’indagine dei suoi processi di costruzione, risalendo fino al “corpo” che egli considera dato per natura e non costruito.

“Ma è in questa apparenza che il regime del potere/discorso è più dissimulato e più insidiosamente efficace. Quando l’effetto materiale è considerato un punto di partenza epistemologico (…), si tratta di una mossa del fondazionismo empirista che, accettando l’effetto costituito come dato primario, riesce efficacemente a nascondere e mascherare la genealogia delle relazioni di potere dalle quali è costruito”[3].

Butler è più radicale di Foucault, e indica nella capacità del discorso dominante di darsi un fondamento materiale, il corpo, la sua mossa più scaltra, perché in grado di celare i processi che portano alla riproduzione dei meccanismi di potere. Ella sostiene la riformulazione della materialità dei corpi come effetto di una dinamica di potere, non è possibile – secondo la studiosa – scindere la materia dei corpi dalle norme che ne regolano la materializzazione e la significazione.

Assumendo criticamente parte del pensiero di Lacan, Butler riconosce nell’identificazione il momento chiave del “processo di assunzione”[4] di un sesso da parte dell’individuo, si tratta però di identificazioni fantasmatiche, instabili, multiple. Il discorso dominante propone delle identificazioni “lecite” – l’uomo e la donna eterosessuali – che conferiscono all’individuo lo statuto di soggetto, e ne rinnega altre, ad esempio la lesbica fallica e il gay effeminato, relegandole al di là dei confini del soggetto. L’insieme delle identificazioni precluse costituisce l’ambito dell’abietto, ovvero il territorio sociale temuto, “inabitabile”. Il soggetto, dunque, “si costituisce attraverso la forza dell’esclusione e dell’abiezione”[5].

La forza del sistema fallologocentrico consta nel suo essere pressoché intrascendibile. Uomo e donna rientrano entrambi nell’economia dell’eterosessualità, sebbene la norma preveda una posizione di subordinazione per quest’ultima, la stessa materialità dei corpi è prodotta dal linguaggio. Al di fuori dell’economia binaria risiede l’abietto, ma questo fuori rientra, in un certo senso, come “fantasma”: i fantasmi dell’abiezione abitano il soggetto in qualità di ripudio originario, sono le tracce lasciate dall’atto violento della formazione del soggetto. Per questa ragione Butler ritiene che il potenziale eversivo dell’immaginario lesbico sia maggiore di quello proprio dell’immaginario materno[6].

Detto ciò è necessario puntualizzare che la strategia eversiva elaborata dalla queer theory non consiste nel privilegiare un’identità esclusa a scapito delle altre, innescando nuovamente una logica di esclusione, quanto nel mettere in crisi i confini fra il dentro e il fuori, destabilizzando i caratteri eterosessuali, maschili, razziali delle identità “legittime”.

Così Cavarero riassume il progetto politico sotteso dal pensiero di Butler:

“La struttura, insomma, deve essere continuamente destrutturata: mediante una proliferazione inarrestabile dei posizionamenti simbolici che apra lo spazio per una democrazia radicale dove nessuna identità sia più fissa e, quindi, normale, normativa, egemone”[7].

 

Cerchiamo ora di precisare quali siano le strategie queer che si prepongono di mettere in crisi il binarismo eterosessista.

 
2.  Il queer, il drag e altre azioni politiche

“(…)il termine queer (strano, strambo, bislacco) era da più di un secolo usato in senso spregiativo per designare una persona omosessuale, ma era già stato ripreso e riscattato dal movimento di liberazione gay e veniva usato con orgoglio da uomini e donne dichiaratamente o apertamente omosessuali.”[8]

De Lauretis presenta il termine queer mettendone immediatamente in evidenza il suo essere in divenire. Da un modo gergale per riferirsi agli omosessuali, a un vero e proprio insulto omofobico, fino ad essere adottato dalla comunità omosessuale stessa, lo si può oggi considerare un “termine ombrello” con cui ci si riferisce sia alle più recenti teorie lesbiche e gay, sia ad una “coalizione di identificazioni sessuali del sé culturalmente marginali”[9]. Il termine queer significa molte cose, non tutte coerenti, è fluido, permeabile, sfuggente. Il suo non essere mai completamente posseduto ne fa uno strumento di critica a tutte quelle identità politicamente utili[10], ma escludenti, che animano l’arena pubblica, fra cui il soggetto omosessuale stesso.

Questa sua funzione potrà svolgerla fintanto che conserverà le peculiarità che abbiamo descritto, dopo di che, scrive Butler:

“Il termine sarà revisionato, dismesso, reso obsoleto fino al punto che soccomberà alle istanze che lo oppongono precisamente a causa delle esclusioni dalle quali è attivato”[11].

Ma le pratiche queer che maggiormente ci interessano per il presente discorso sono quelle legate alle performance teatrali, artistiche, pubbliche, “politiche”. Esse sono spesso caratterizzate da una sorta di fusione, o almeno di non contrapposizione, fra il teatrale e il politico. Teatrali non sono solo gli spettacoli che si svolgono in luoghi preposti ad essere sede di manifestazioni, teatrali sono certe azioni sovversive che richiamano l’attenzione e mettono in discussione il paradigma eterosessuale. Molte sono le associazioni che organizzano manifestazioni, parate, feste non violente volte ad affermare la diversità sessuale e a combattere una lotta contro l’omofobia: kiss-ins, feste o incontri in cui i gay si baciano pubblicamente per farsi riconoscere, l’outing ovvero la dichiarazione pubblica dell’omosessualità di personaggi di rilievo non ancora venuti allo scoperto, addirittura l’iperbole della morte stessa con i die-ins, malati di AIDS che volontariamente scelgono di morire in pubblico, la pratica del cross-dressing, vale a dire feste danzanti in drag, spettacoli butch-femme e drag queen[12].

Queste pratiche rientrano, secondo Butler, nella crescente teatralizzazione della rabbia politica che ha origine dalla reazione al sentimento imposto della vergogna. Il moralismo occidentale, che ha a lungo accusato l’omosessualità di essere una pratica lubrica, più che essersi risolto è slittato trovandosi nuovi alibi. L’AIDS, ad esempio, è origine di vergogna e con esso l’omosessualità, considerata una delle cause della sua diffusione.

Ma il drag è in grado di sovvertire l’imperativo eterosessuale? La studiosa americana prende le distanze da facili ottimismi[13]. Se “la conformità iperbolica al comando può rivelare lo status iperbolico della norma stessa[14]”, ovvero se le performance che esasperano il rispetto delle norme che delineano ciò che è “maschio” e ciò che è “femmina” aiutano a svelare come questi imperativi siano culturali, ciò può non essere sufficiente a sovvertirli.

Il drag potrebbe ridursi ad essere l’allegorizzazione della fondamentale malinconia dell’eterosessualità che, richiedendo che identificazione e desiderio siano mutuamente esclusivi, bandisce il desiderio omosessuale.

3.  Maschere virtuali in comunità immateriali

Il tema dell’identità di genere emerge fin dalle prime ricerche sulle comunità virtuali effettuate da studiose come Sherry Turkle ed Elizabeth Reid. Tali studi erano per lo più descrittivi, ricerche etnografiche che non tardarono a rivelare una delle possibilità più interessanti del cyberspazio: in una situazione in cui il corpo “reale” non è visibile e si vive una condizione di anonimato, i soggetti tendono a sperimentare la possibilità di dar vita ad identità multiple. Questo fenomeno è stato approfondito dalle autrici lungo il loro percorso di ricerca che, seppur non guidato da direttrici espressamente femministe, le ha portate ad individuare gli aspetti della vita sullo schermo interessanti per il discorso sul genere.

Elizabeth Reid, già in Identity and the Cyborg Body[15], mette in luce l’importanza che al genere viene attribuita nelle dinamiche interne ai MUD. Ogni partecipante deve creare un proprio personaggio scrivendone una descrizione, scegliendogli un nome e assegnandogli necessariamente un genere[16], mentre può omettere molte altre variabili sociali (razza, religione, classe). Inoltre, osservando le interazioni fra i personaggi dei MUD, ella rileva che molta parte dei discorsi in fase di conoscenza sono orientati a scoprire il genere “reale” dell’interlocutore e a convincerlo della veridicità del proprio.

Anche Sherry Turkle, analizzando una lunga serie di casi di gender-swapping[17]nelle comunità virtuali su cui lavora, evidenzia più volte “le potenzialità dei MUD come nuovi palcoscenici per lavorare sulle politiche riguardanti l’identità sessuale”, strumenti con cui “poter pensare e considerare la costruzione sociale dei sessi”[18].

Diverse ricerche successive mettono più esplicitamente in relazione la queer theory con l’esperienza vissuta come personaggi nelle comunità virtuali. In Text as Mask: Gender, Play and Performance on the Internet[19] Brenda Danet argomenta la rilevanza delle comunità virtuali come terreno d’indagine per gli studi di matrice queer, constatando come molte persone che mai sono state interessate prima ad una pratica di cross-dressing, stiano sperimentando l’identità di genere mediante gli incontri “testuali” su Internet.

Più specificamente rivolto all’analisi dei possibili risvolti che la pratica del “sesso virtuale” può avere per le politiche dell’identità, è il lavoro di Shannon McRae[20]. A proposito degli innumerevoli fenomeni di gender-crossing che si verificano in rete, scrive l’autrice:

“If boys can be girls and straights can be queers and dykes can be fags and two lesbian lovers can turn out to both be men in real life, then “straight” or “queer”, “male” or “female” become unreliable as markers of identity. It is not so much that gender roles or sexual preferences actually change as that cross-gender role play troubles the link between gender and desire, from wich we, unquestioningly, construct our identities as sexual beings.”[21]

Secondo McRae, giocare con il proprio genere on-line non è un’attività così eversiva come può esserlo sperimentarsi in performance drag nella vita reale e non porta quasi mai al cambiamento delle proprie preferenze sessuali, tuttavia, è un’attività che può contribuire a smascherare la falsa “naturalità” del legame fra genere e desiderio.

Proprio i meccanismi della costruzione del desiderio sono al centro degli studi di A.R. Stone che individua nei MUD un luogo d’indagine d’elezione per la sua ricerca. La comunicazione testuale che avviene nelle comunità virtuali è una comunicazione a banda ridotta e come tale necessita di essere “integrata” con le fantasie, le interpretazioni, l’immaginazione degli interlocutori, il desiderio viene teorizzato come risposta ad un’assenza percepita[22].


NOTE

[1] T. De Lauretis, Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano, 1999, p. 104-106.
[2] Una buona parte della queer theory porta avanti il suo discorso da una prospettiva femminista. La stessa Butler è una delle esponenti più eminenti del femminismo postmoderno.
[3] J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”. Feltrinelli, Milano, 1996, p. 30.
[4] Parlando di processo di assunzione operiamo una forte semplificazione. Secondo Butler non esiste un soggetto volontarista che subisce o si appropria di una norma, è piuttosto l’“io parlante” che si forma durante il processo di assunzione del sesso.
[5] J. Butler, Corpi che…, cit., p. 3.
[6] L’immaginario lesbico abita la zona dell’abiezione, incarna le possibilità precluse, il desiderio proibito, mentre il materno, seppur in relazione dialettica rispetto al maschile, rimane inscritto nell’economia binaria dell’eterosessualità e, perciò, nella liceità.
[7] F. Restaino, A. Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino, 1999, p. 157.
[8] T. De Lauretis, Soggetti…, cit., p. 104.
[9] Per una riflessione sull’uso del termine queer si veda l’articolo: A. Jagose, Queer Theory, reperibile in Internet all’indirizzo http://www.lib.latrobe.edu.au/AHR/archive/Issue-Dec-1996/jagose.html e tratto dal saggio A. Jagose, Queer Theory, University of Melburne Press, 1996.
[10] Una delle questioni aperte del femminismo contemporaneo è relativa alla necessità di conciliare l’esigenza di affermarsi come soggetto politico e la volontà di non riprodurre i meccanismi di esclusione su cui si fonda il fallologocentrismo. Il cyborg di Haraway, il soggetto nomade di Braidotti, l’eccentrico di De Lauretis sono solo alcuni dei tentativi di risposta a questo problema.
[11] J. Butler, Corpi che…, cit., p. 171.
[12] Per cross-dressing s’intende il travestimento con abiti tipici del genere opposto. Drag è un’espressione colloquiale per indicare gli abiti dei travestiti. Durante le feste in drag si gioca con la propria immagine di genere travestendosi, in modo eccessivo e spettacolare.
Butch in inglese significa mascolino, maschiaccio e femme donna, moglie ma nel gergo relativo all’omosessualità per butch e femme s’intendono rispettivamente la lesbica mascolina e la lesbica femminile; drag queen sono invece uomini travestiti che indossano abiti femminili e trucchi vistosi parodiando spesso personaggi famosi o regine vere e proprie. L’obiettivo di questi spettacoli a tematica gay, sia i butch/femme che i drag queen, è per lo più di giocare col genere sfatando così l’immagine stereotipata di maschilità e femminilità.
[13] Ma anche da critiche estreme. La posizione di Butler nei confronti del drag è in posizione dialettica rispetto a quella corrente delle femministe radicali che considerano il drag offensivo per le donne perché pratica imitativa fondata sul ridicolo e la degradazione.
[14] J. Butler, Corpi che…, cit., p. 179.
[15] E. Reid, Identity and the Cyborg Body, capitolo 3 della tesi di laurea Cultural Formations in Text-Based Virtual Realities, Cultural Studies Program, Department of English, Università di Melbourne, Gennaio 1994. Reperibile in rete all’indirizzo http://www.rochester.edu/College/FS/Publications/ReidIdentity.html.
[16] La descrizione è libera, mentre l’assegnazione del genere è richiesta esplicitamente durante il processo di creazione di un personaggio. Molti MUD, tuttavia, danno la possibilità di scegliere anche fra quattro o più generi: uomo, donna, neutro, entrambi e altri ancora.
[17] Le espressioni gender-swapping, gender-crossing e gender-bending designano le performance (in genere sessuali) in cui il soggetto “interpreta” un personaggio di genere opposto al proprio.
[18] S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997, p. 321 e p.317.
[19] B. Danet, Text as  Mask: Gender, Play and Performance on the Internet, In Cybersociety 2.0: Revisiting Computer-Mediated Communication and Community, a cura di Steven G. Jones, SAGE Publications, 1998.
[20] S. McRae, Flesh Made World. Sex, text and the virtual body, In Internet Culture, a cura di David Porter, Routledge, New York e Londra, 1997.
[21] Ibidem, p. 79-80.
[22] A.R. Stone, Desiderio e tecnologia. Il problema dell’identità nell’era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 112-113.

Sandy Stone: Will the real body please stand up?
 

Stone focalizza il suo studio sulle comunità virtuali nella convinzione che esse agiscano come potenti apparati per la produzione di comunità e per la produzione di corpi.

1.    Significato e storia delle comunità virtuali

      Le comunità virtuali non sono peculiari dell’era elettronica: ciò che le definisce (oltre alla lontananza, alla mancanza della presenza fisica) è il loro costituirsi attorno ad un TESTO che incarna, organizza, forma lo spirito e gli ideali della comunità.
      Stone traccia una breve storia delle comunità virtuali, dividendola in quattro capitoli.
      Epoca uno: I testi. Boyle e la prima comunità scientifica . Viene messa in evidenza la capacità del testo, scientifico o di finzione, di creare la comunità, creando, organizzando e controllando saperi, abitudini e idee.
      Epoca due: Comunicazione elettronica e media d’intrattenimento (XX secolo e oltre). Con i mass media si comincia a pensare la "presenza" in modo diverso.
      Epoca tre: Tecnologia dell’informazione. Le BBS. Il computer, il digitale, cambia l’idea di testo che costituisce la comunità: da testo chiuso e lineare a spazio testuale interattivo e consensuale
      Epoca quattro: Realtà virtuale e cyberspazio. Importanza di Neuromante: il romanzo di Gibson cristallizza l’immaginario fantascientifico in un nuovo paradigma all’interno del quale si costituisce la nuova comunità virtuale dei ricercatori e degli ingegneri informatici. Nasce la nuova realtà del cyberspazio con i suoi nuovi aspetti e nuovi interrogativi vengono posti: identità, genere, corpo….

      
   
2.    Dualismo tra corpo e soggetto

      Stone ripercorre la storia del progressivo allontanarsi del soggetto dalla sua corporeità. Riprende le riflessione di Frances Barker (The Tremulous Private Body, 1984) sulla privatizzazione del corpo nella seconda metà del XVII secolo. Da questo momento in poi il corpo e il soggetto, che Cartesio aveva già definitivamente separato, cessano di occupare lo spazio dello spettacolo pubblico e si privatizzano. Nasce l’individuo, il privato, il personale. Il soggetto si rinchiude sempre più in se stesso e diventa "testo". Corpo e soggetto si nascondono così sempre di più, diventano sempre più invisibili e ripiegati su se stessi. Il corpo nascosto sotto i vestiti della nuova moda, o tra le mura della privacy domestica, il soggetto nascosto nel testo.
      Il corpo negato, nascosto, ormai non più corpo, ma carne, diventa utile materia prima da utilizzare nel lavoro (e il corpo così inteso, ridotto a materia bruta, sarà il motore della imminente rivoluzione industriale). Il soggetto, al contrario, si rifugia nella trascendenza e nell’incorporeità del testo perdendo sempre di più fisicità.

3.    Il corpo nel cyberspazio

      "Se l’età dell’informazione è un’estensione dell’età industriale, il divario corpo-soggetto dovrebbe aumentare e radicalizzarsi. Invece nella quarta epoca il divario nello stesso tempo si acuisce e scompare". All’interno del nuovo paradigma tecnologico del cyberspazio le categorie analitiche con cui siamo abituati a distinguere il biologico e il tecnologico, il naturale e l’artificiale, l’umano e il meccanico, non sono più affidabili.
      Con le nuove tecnologie sembra ci possano essere le premesse per ripensare seriamente la corporeità in modo diverso, per non ricadere nella storica dimenticanza del corpo che ha caratterizzato l’Occidente. Il rischio che questa mossa si riproponga è evidente nelle assunzioni e nelle fantasie incorporee che circolano tra gli ingegneri del Cyberspazio e della realtà virtuale. Essi fanno spesso riferimento alla grande libertà corporea che le nuove tecnologie offrono, intendo per "libertà corporea" una eccitante "libertà dal corpo". Il desiderio di liberarsi del corpo, riconoscibile anche in molti altri atteggiamenti che circolano riguardo cyberspazio, si ricollega all’ansietà maschile per il controllo, al desiderio di potere assoluto.

4. Corpi illeggibili, ma sempre corpi
     
 "Non importa quanto virtuale il soggetto possa diventare, c’è sempre un corpo attaccato. Può essere da qualche altra parte – e questo "qualche altra parte" può essere una posizione di osservazione privilegiata – ma la coscienza rimane sempre incarnata nel fisico".
      Stone ribadisce l’importanza di considerare il soggetto come soggetto incarnato, come legato indissolubilmente al corpo, anche nel cyberspazio: "storicamente il corpo, la tecnologia, la comunità si costituiscono vicendevolmente".
      I suoi "corpi illeggibili" sono una proposta per pensare ad un nuovo tipo di corporeità. Stone fa esplicito riferimento al corpo culturalmente intelligibile della Butler , i "criteri e i modi (incluse le inscrizioni su o nel corpo) che ogni società utilizza per produrre corpi che possa riconoscere come suoi membri" e che lei definisce corpo leggibile. Il corpo illeggibile è, al contrario, un corpo che sfugge al riconoscimento della società, un "soggetto ai confini". Qui il riferimento è alla Mestiza di Gloria Anzaldùa, descritta come "molteplicità di interessi frequentemente in conflitto. Non c’è nessuna posizione all’interno della cornice della società che ne costituisca un’adeguata descrizione". Mestiza può suggerire una nuova corporeità all’interno della quale pensare anche i soggetti (corpi) che popolano il cyberspazio.
      Ancora, nella conclusione, la necessità di ribadire il radicamento nel corpo: "Cito le parole di una persona specifica, come modo per tenere la discussione radicata in corpi individuali: le parole di Paul Churchland che si riferiscono alle "creature biologicamente situate" che tutti noi siamo. Il lavoro della scienza riguarda i corpi, non in senso astratto, ma nel modo mutevole e complesso con cui manifestiamo noi stessi come essere sociali e fisici, vulnerabili alle potenti conoscenze che ci circondano e agli effetti dei discorsi scientifici e tecnologici che adottiamo e adoperiamo.
      Bisogna essere particolarmente consci di questo, poiché la maggior parte del lavoro dei ricercatori del cyberspazio assume che il corpo umano sia solo "carne" – obsoleta, visto che ormai la coscienza stessa può essere caricata nella rete. Gli sviluppatori del cyberspazio predicono un mondo in cui sarà possibile dimenticarsi del corpo. Ma è importante ricordarsi che le comunità virtuali si originano e nella fisicità, e alla fisicità devono ritornare. Nessun corpo virtuale, non importa quanto stupendo, rallenterà la morte di un cyberpunk con l’AIDS. Anche nell’epoca del soggetto tecnosociale, la vita è vissuta attraverso i corpi.
      Dimenticarsi del corpo è un vecchio trucco cristiano, che ha spiacevoli conseguenze per quei corpi il cui discorso è impedito dall’atto di questa dimenticanza; quei corpi sul lavoro e sulla sofferenza dei quali l’atto della dimenticanza è fondato, normalmente donne e minorenni. La dimenticanza può diventare però anche potente strategia, come propone Haraway: attraverso la dimenticanza, ciò che è già stato costruito diventa qualcosa che può essere riscoperto in modo differente. Ma come ogni strategia potente e produttiva, anche questa ha i suoi rischi. Ricordare – riscoprire – che i corpi e le comunità si costituiscono a vicenda suggerisce una serie di questioni e dibattiti per le comunità virtuali."

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IL CYBERFEMMINISMO

Da: http://www.tramanti.it/conten/testi/cyberfemm/femmcyb_intro.htm


Femminismo e nuove tecnologie: il nesso

 

Che senso ha mettere in relazione le istanze del femminismo contemporaneo con un concetto apparentemente vago quale quello di “nuove tecnologie”? In che senso può giovare alle politiche femminili e femministe una riflessione sul cyberspazio e sulle nuove frontiere raggiunte dalla scienza?
Indice
 

Il contesto

La Postmodernità. L’epoca della crisi delle grandi narrazioni dell’Occidente che ha avuto origine, fra l’altro, dalla fine dell’imperialismo europeo, e dall’affermarsi del sistema dei mass media prima e delle nuove tecnologie dell’informazione poi. Un simile contesto ha generato una sorta di caos più a livello epistemologico che materiale. Un caos fecondo in cui, secondo i teorici del post-modernismo, risiede il potenziale liberatorio della nostra era. Un contesto che può offrire spazio ai dialetti, ai margini, ai discorsi delle minoranze che, fin’ora, non hanno avuto voce. Un momento di possibili ricollocazioni per soggettività differenti da quella dominante in epoca moderna, individuato da molte teoriche femministe come un possibile punto di svolta, un treno da non perdere.
Indice
 

Le nuove tecnologie

Un discorso sulle nuove tecnologie è dunque un discorso sulla genesi e sul tessuto della società contemporanea. Ma il concetto di nuove tecnologie comprende realtà sensibilmente eterogenee che coinvolgono la riflessione femminista su temi anche distanti fra loro.
Il Cyberspazio è l’ambito al quale dedicheremo maggiore attenzione. Abbracciamo la definizione di Cyeberspazio come di uno spazio sociale altamente conflittuale in cui coesistono e si intrecciano discorsi molteplici. Uno spazio sociale in cui i soggetti vivono, comprano, si relazionano, sperimentano identificazioni, mettono in comune esperienze e saperi. Ma anche uno spazio conflittuale, in cui le forze in gioco sono i poteri forti che lo hanno prodotto e tutti quei soggetti che entrano in rapporto dialettico con questi per ottenere visibilità e fondarne il senso. In questo contesto è fondamentale, per le donne, essere soggetti attivi, che concorrono alla significazione di uno spazio che sta rischiando di divenire l’ennesima colonia del patriarcato capitalista bianco.
 
La ricerca contemporanea ha concentrato enormi risorse anche nel campo delle bio-tecnologie. La mappatura del genoma umano, la procreazione assistita, l’ingegneria genetica rappresentano le frontiere della scienza odierna e aprono grandi contraddittori in seno alla critica femminista. Tali ricerche, infatti, agiscono in direzione del controllo del sé corporeo, istituiscono un nuovo significante universale, il genoma, attraverso cui spiegare l’”essenza” del soggetto, fondono il tecnico con l’organico al fine di potenziare le capacità del corpo verso una sorta di “ibrido bionico”, coinvolgono la donna in modo particolare perché ampliano le possibilità della riproduzione, manipolano la fecondazione e addirittura poterbbero sollevare la madre dall’onere della gestazione. Le filosofe moderniste vedono nelle tecnologie di riproduzione un tentativo di espropriazione da parte del patriarcato di ciò che di esclusivo c’è nell’essere donna; mentre le cyberfemministe hanno sviluppato un approccio pro-tecnologico ed individuano in tali tecnologie la possibilità di liberarsi dagli imperativi biologici della maternità.
 
Ma esse vanno oltre, cercando di ripensare la scienza attuando una critica radicale all’idea di ragione, storicamente e strutturalmente legata al dominio e alla mascolinità e proponendo una nuova dottrina dell’oggettività femminista: i saperi situati.

Ripensare il soggetto femminista: il cyborg.
In un contesto in fieri, permeato dalla tecnologia e dall’immaginario che ne deriva, il femminismo contemporaneo avverte la necessità di ridefinire se stesso, il proprio modo di essere soggetto politico, la propria epistemologia. Fondamentale, in questo senso, l’opera di Haraway che ha compreso l’urgenza di creare un nuovo linguaggio per poter pensare il mondo in modo differente. Contribuisce a questo processo inventando figurazioni (il cyborg è la più celebre ed emblematica) che permettano di scardinare i dualismi del pensiero fallologocentrico. Il cyborg è infatti l’ibrido per eccellenza, riassume e confonde le opposizioni alla base della nostra cultura: natura/cultura, organico/meccanico, femminile/maschile…
 

Lo sguardo politico

Prendendo a riferimento le tre differenti prospettive in cui si articola la teoria femminista (teorie dell’uguaglianza, della differenza, della decostruzione), cercheremo di capire quali realtà presenti nel cyberspazio, o legate alle nuove tecnologie in generale, possano essere viste come strumentali agli obiettivi che il femminismo si prepone.
Quali sono gli spazi della rete nati per supportare il percorso femminile verso l’emancipazione? Tutti quei siti nati per incrementare la parità dei diritti e delle opportunità, da quelli che svolgono un servizio puramente informativo (istituzioni per le donne, concorsi, leggi), a quelli che supportano iniziative concrete (la banca del tempo, ad esempio), dai siti di denuncia sociale a quelli di sostegno a campagne di sensibilizzazione a livello globale.
Ci sono poi spazi dedicati alla definizione di una cultura femminile che è sempre esistita, anche se messa a tacere per lungo tempo? Siti che danno voce al femminile e alle sue produzioni artistiche e culturali?
E infine, in un ottica post-moderna, in che senso il cyberspazio può essere un luogo privilegiato per la sperimentazione di nuove identificazioni per il soggetto donna? Per la decostruzione di quel significante-donna che discende dal paradigma patriarcale?
 

I rischi

Se da un lato le nuove tecnologie appaiono gravide di opportunità, dall’altro non sono esenti da pericoli ed esclusioni. Molti sono i fattori che limitano la democraticità del cyberspazio, ad esempio, accesso, predominanza della lingua inglese, know-how tecnologico, omologazione culturale di matrice americana, visibilità, comportamenti scoraggianti nei confronti delle donne o delle minoranze in genere…
Un’analisi delle possibilità che le nuove tecnologie offrono non può prescindere da uno sguardo attento sui rischi e le discriminazioni cui potenzialmente si accompagnano.


Cyberfemminismo: verso una definizione

Il cyberfemminismo è un fenomeno recente ed eterogeneo tanto da sfuggire a facili tassonomie. Ci proponiamo di realizzare un breve itinerario per analizzare il termine cyberfemminismo e il suo significato e per esplorare la nascita del movimento attraverso le definizioni che di esso hanno dato le sue iniziatrici e le prime studiose che se ne sono interessate.

 

Il termine Cyberfemminismo, genesi e significato

Il neo-logismo cyberfemminismo ha origine incerta. Kira Hall[1] sostiene che diverse teoriche siano arrivate a farne uso in modo autonomo l’una dall’altra. Le artiste di VNS Matrix lo adottarono nel 1991 per denominare il secondo lavoro del gruppo, il Cyberfeminist Manifesto for 21st Century[2], un’opera provocatoria e “al femminile” volta a delineare l’intento politico e di rottura del collettivo e a sottolineare l’atteggiamento di assoluto non vittimismo che lo contraddistingueva. Sadie Plant parlò di cyberfemminismo, indipendentemente dal VNS Matrix, in una serie di brevi articoli pubblicati intorno al 1993, considerandolo sia da un punto di vista filosofico che di attivismo politico. Come essa stessa puntualizza in un’intervista:

 
“I started using the word quite indipendently of any other use I’d come across. I’d never seen the word used before. Cyberfeminism to me implies an alliance between women, machinery and new technology that women are using”.[3]

Già da questa breve affermazione è possibile ravvisare il carattere tendenzialmente utopistico dell’analisi che Plant fa della relazione esistente fra donne e tecnologie.

Fu solo nel 1994 a Londra, durante la conferenza “Seduced and Abandoned: The Body in the Virtual World”, che il termine cyberfemminismo venne introdotto nel dibattito accademico ufficiale; in quell’occasione se ne parlò come di una derivazione del “cyborg feminism” proposto da Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, edito per la prima volta nel 1991 negli Stati Uniti. Dall’inizio degli anni novanta ad oggi parecchie studiose hanno contribuito ad accrescere la popolarità del neo-logismo in questione, diventato ormai di uso comune negli ambiti accademici connessi agli Women’s Studies.


Ma cosa s’intende per cyberfemminismo?

Il termine è frutto della fusione di cyber e feminism. Se sul significato di feminism, femminismo, non ci soffermiamo oltre, un po’ d’attenzione è opportuno rivolgerla al prefisso cyber, che deriva dal greco kybernàn e sta per pilotare; esso evoca una serie di neo-logismi quali cybernetics, cyberpunk e cyberspace[4] che rimandano ad ambiti cui il cyberfemminismo è connesso. Cybernetics è il termine che indica la scienza delle macchine capaci di autoregolarsi e ci introduce nell’ambito delle tecnologie avanzate, dello studio dell’intelligenza artificiale e di una sorta di potenziale permeabilità fra l’essere umano e la macchina intelligente. Fantasie di continuità fra il mondo virtuale e quello cerebrale sono al centro della letteratura cyberpunk, che, negli anni ottanta, ha rivoluzionato il genere fantascientifico. William Gibson, uno dei padri di questa corrente letteraria, ha reso celebre il termine cyberspace che, evinto dall’ambito scientifico in cui è nato, è servito all’autore per denominare le “autostrade telematiche” su cui viaggiavano i suoi futuristici cowboy. Per cyberspazio oggi s’intende quello spazio virtuale che sta dietro lo schermo e in cui si svolgono le operazioni che eseguiamo coi nostri terminali, sia quelli dei pc, sia quelli che si trovano negli sportelli del Bancomat, delle informazioni ferroviarie, eccetera, lo spazio in cui sono “collocate” le risorse a cui accediamo navigando in Internet, in cui viaggiano i messaggi di posta elettronica, in cui si svolgono le conversazioni mediate dal computer.

È facile intuire come il cyberfemminismo abbia a che fare con il femminismo e con le nuove tecnologie. Nel saggio introduttivo all’edizione italiana del Manifesto Rosi Braidotti scrive:

“Cyber feminism è il movimento di pensiero, ma anche di attività politica, che si situa nelle nuove frontiere del cyberspazio e cerca di utilizzare le nuove tecnologie a favore delle donne”[5].

E, potremmo aggiungere, di tutte le minoranze discriminate. Partiamo da questa definizione perché, nella sua genericità, traccia confini estesi e permeabili in grado di comprendere le diverse realtà che rientrano nel discorso cyberfemminista e che cercheremo di esplorare lungo il nostro percorso. Essa include l’attività politica a favore delle donne: ovvero tutte quelle forme di confronto, diffusione di informazioni, formazione (in ambito tecnologico ma non solo), sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che eleggono il cyberspazio a campo d’azione privilegiato; e, ancora, include il movimento di pensiero, cioè tutto il lavoro teorico che le donne stanno tessendo intorno al tema delle nuove tecnologie, la valutazione delle opportunità che offrono, dei rischi di esclusione che comportano, l’individuazione dei nodi teorici che chiamano in causa, ma anche il lavorio simbolico prodotto dalle donne che in rete esibiscono arte e sperimentano identità e scenari alternativi.

 


Il First Cyberfeminist International: il movimento rifiuta di definirsi  

The First Cyberfeminist International, che si tenne a Kassel, Germania, dal 20 al 28 settembre 1997, parte dell’Hybrid Workspace at Documenta X, fu una delle prime occasioni in cui le cyberfemministe della prima ora ebbero modo di incontrarsi, confrontarsi ed avviare un discorso su cosa fosse quel movimento cyberfemminista di cui, ciascuna a modo suo, dicevano di sentirsi parte. L’evento coinvolse 38 donne provenienti da 12 stati[6] e fu organizzato dal gruppo di attiviste che aveva fondato a Berlino, nella primavera dello stesso anno, l’Old Boys Network[7], un sito cyberfemminista animato dall’intento di fornire spazi virtuali (liste di discussione, articoli disponibili sul sito, rete di connessioni con altri siti affini) ma anche fisici (organizzazione di incontri) in cui studiose, artiste e attiviste cyberfemministe potessero svolgere ricerca, confronto e sperimentazione.
Durante gli interventi, i progetti web e i workshop del First Cyberfeminist International furono trattati i temi caldi del cyberfemminismo, fra i quali: la costruzione di identità alternative in Internet e la rappresentazione che le donne danno di sé mediante gli avatar, le teorie relative alla visibilità della differenza sessuale nella rete, l’hacking, la pornografia al femminile e il cybersex, le strategie per combattere gli stereotipi, l’essenzialismo e le rappresentazioni sessiste delle donne, l’analisi dei progetti artistici femministi con fini politico-strategici, i modelli alternativi per la formazione tecnologica, le proposte per sostenere e organizzare progetti femministi di networking nei diversi stati.

Uno degli argomenti di discussione che coinvolse a lungo le partecipanti dell’incontro di fu relativo alla possibilità di dare una definizione, o meno, del movimento cyberfemminista. Si arrivò alla conclusione che il cyberfemminismo potesse essere definito solo per negazione e non con improduttive ed escludenti spiegazioni. In quell’occasione non venne redatto alcun manifesto programmatico ma si individuarono le 100 antitesi del cyberfemminismo, ovvero una lunga lista di affermazioni su ciò che il cyberfemminismo non è. Ne riportiamo alcune:

 

“2. cyberfeminism is not a fashion statement

18. cyberfeminism is not an ism

19. cyberfeminism is not anti-male

22. cyberfeminismo no es uns frontera

26. cyberfeminism is not separatism

27. cyberfeminism is not a tradition

30. cyberfeminism is not without connectivity

49. cyberfeminism is not solid

50. cyberfeminism is not genetic

72. cyberfeminism is not neutral

79. cyberfeminism is not science fiction

81. cyberfeminism is not an empty space

88. cyberfeminism is not a non-smoking area

92. cyberfeminism is not lady.like

98. cyberfeminism is not dogmatic

100. cyberfeminism has not only one language”[8]

vedi : http://www.obn.org/cfundef/100antitheses.html

 
Da una riflessione su queste affermazioni emergono, al di là del tono a volte divertito, provocatorio, volutamente contraddittorio, alcune peculiarità dei gruppi cyberfemministi attivi in Internet. Il cyberfemminismo non è un “ismo”, non è “dogmatico” e non è “neutrale” si pone criticamente nei confronti delle grandi narrazioni essenzialistiche dell’epoca moderna. Il cyberfemminismo non è una “signora” o “un’area per non fumatori”, potremmo dire “non è educato”, alcuni di questi gruppi infatti fanno dell’ironia, della parodia, della provocazione strategie per contrastare gli stereotipi relativi alle donne e al loro rapporto con le tecnologie. Il cyberfemminismo poi “non parla una sola lingua”, travalica le frontiere geografiche ma non solo, le molte lingue appartengono forse alle realtà eterogenee che esso comprende evitando, appunto, di definirsi positivamente, preferendo accogliere la pluralità come ricchezza. E ancora, il cyberfemminismo non è “anti-maschio”, non è “tradizione” e non è “separatismo” queste negazioni evidenziano una presa di distanza dal femminismo tradizionale e dalle sue crociate.

Definirsi per essere soggetto politico

Ma un non-soggetto, quale si descrisse il movimento cyberfemminista per voce di alcune sue rappresentanti, ha davvero visibilità e voce nel dibattito politico, sociale e culturale in atto? Il rifiuto a definirsi finisce per essere anche un rifiuto a collocarsi e, di conseguenza, ad essere un soggetto politico a tutti gli effetti.

Faith Wilding, un’artista del multi-media e scrittrice americana che partecipò al First Cyberfeminist International, comprese questo problema e prese le distanze dall’atteggiamento di rifiuto ad autodefinirsi emerso durante l’incontro di Kassel in un articolo uscito dopo il congresso:

“While refusing definition seems like an attractive, non-hierarchical, anti-identity tactic, it in fact plays into the hands of those would prefer a net quietism: Give a few lucky women computers to play with and they’ll shut up and stop complaining”.[9]

La Wilding si sofferma sui rischi a cui può portare l’atteggiamento eccessivamente autoreferenziale assunto durante le teorizzazioni sull’impossibilità, per il movimento cyberfemminista, di darsi delle coordinate “positive”. Mentre ci si perde nel tentativo teorico di non creare esclusioni mediante l’uso, o meno, di definizioni si sta combattendo la lotta per l’accesso e la colonizzazione delle risorse informatiche. Il computer e la rete non sono per tutti, e nello stesso tempo sono strumenti di potere e di sapere. Essi offrono al cyberfemminismo l’opportunità di rivolgersi ad un pubblico trans-nazionale e possono essere una possibile via d’accesso al discorso politico femminista. Ma ogni forma di comunicazione, quella politica in particolare, necessita di un mittente e di un destinatario e di informazioni contestualizzate.

“(Self)defintion can be an emergent property that arises out practice and changes with the movement of desire and action. Definition can be fluid and affirmative – a declaration of strategies, actions, and goals. It can create crucial solidarity in the house of difference – solidarity, rather than consensus – solidarity that is a basis for effective political action”[10].

Una definizione, seppur fluida e permeabile, è un punto di partenza fondamentale per la realizzazione di un’azione politica concreta. Definirsi mediante obiettivi, strategie e azioni condivise serve a creare solidarietà fra le parti in gioco e ad assumere la forma di soggetto collocato, attivo, “parlante”.

 
NOTE


[1] K. Hall, Cyberfeminism, in Computer-mediated communication. Linguistic, social and cross-cultural perspectives, edited by Susan C. Herring, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia, 1996, p.168.
[2] VNS Matrix fu un collettivo australiano che si occupò di arte multimediale dal 1991 al 1997. Era formato da quattro artiste: Josephine Starrs, Francesca da Rimini, Julianne Pierce e Virginia Barratt, che lasciò il gruppo nel 1996. Su Internet è possibile vedere il Cyberfeminist Manifesto for 21st Century all’indirizzo http://sysx.org/vns/.
[3] Questa affermazione è tratta da un’intervista rilasciata da Sadie Plant a RosiX, reperibile nel sito d’arte digitale http://rorschach.test.at/, all’indirizzo http://rorschach.test.at/mindflux/mv2-articles/nutek.html.
[4] Per un’approfondimento sulle definizioni relative alla terminologia legata al cyberfemminismo si veda R. Braidotti, La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, introduzione a D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 11-12.
[5] Ibidem, p. 12.
[6] La lista completa delle partecipanti, provenienti per lo più da Australia, Stati Uniti, diversi stati europei e alcuni paesi dell’est, è disponibile sul sito delle Old Boys Network all’indirizzo Internet http://www.obn.org/kassel/participants.htm. Esplorando i siti di ciascuna delle donne presenti all’incontro di Kassel si scopre che esse sono per lo più artiste, studiose, professioniste nell’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione, che hanno aperto spazi in Internet per esibire nuove forme artistiche, per creare spazi di confronto e sensibilizzazione sullo stato d’emancipazione delle donne, per alimentare la discussione sulle nuove forme di femminismo che si stanno affermando.
[7] L’Old Boys Network fu fondato da Susanne Ackers, Julianne Pierce, Valentina Djordjevic, Ellen Nonnenmacher e Cornelia Sollfrank ed è tutt’ora attivo e reperibile all’indirizzo Internet http://www.obn.org/.
[8] La lista completa delle 100 antiesi del cyberfemminismo è consultabile sul sito delle Old Boys Network all’indirizzo Internet http://www.obn.org/cfundef/100antitheses.html.
[9]  F. Wilding, Where is Feminism in Cyberfeminism?. L’articolo è reperibile in Internet all’indirizzo http://www-art.cfa.cmu.edu/www-wilding/wherefem.html.
[10] Ibidem.


Le radici del Cyberfemminismo: dal postmoderno al cyberpunk.

Il cyberfemminismo è un movimento eterogeneo e di recente formazione. Non ha un manifesto programmatico unitario, non ha dei dogmi a cui rifarsi e neppure pochi obiettivi comuni da perseguire a denti stretti. Ma su cosa si concentra, dunque, la riflessione teorica cyberfemminista?

Il discorso cyberfemminista non è originale nei suoi presupposti teorici quanto nel territorio che sceglie di esplorare: il cyberspazio. Ciò significa che il corpus teoretico e politico del movimento è opera di studiose, attiviste e artiste di estrazione eterogenea, che assumendo prospettive anche dissonanti si confrontano con le nuove tecnologie della comunicazione cercando di individuarne le valenze a favore delle donne.

Per questa ragione inizieremo ad indagare la teoria cyberfemminista partendo dai paradigmi teorici che la caratterizzano. I temi chiave del pensiero femminista postmoderno, le questioni affrontate dalla queer theory, le problematiche individuate da Haraway, le correnti che costituiscono la cyber theory, i temi d’interesse del cyberpunk politico e il denso immaginario prodotto dal cyberpunk letterario. Questo primo percorso non si focalizza sulle singole ricerche che sono state portate avanti in campo cyberfemminista ma tratteggia il contesto culturale in cui il movimento si colloca.


Cyberpunk e Cyberfemminismo

 
1. Il cyberpunk come fenomeno letterario

2. Il cyberpunk come movimento politico

3. Cyberpunk, postmoderno e femminismo cibernetico

Alcuni studiosi considerano il cyberfemminismo una manifestazione del cyberpunk. Secondo la definizione allargata di cyberfemminismo da cui abbiamo scelto di partire, questa relazione fra i due fenomeni risulta quantomeno riduttiva. Marcatamente cyberpunk sono i gruppi di attiviste cyberfemministe che si collocano nell’area net-utopica e le cyber-grrl che animano siti, magazine, portali on-line; di tutt’altra estrazione socio-culturale sono invece alcune delle teoriche che pure contribuiscono all’evoluzione e alla riflessione sulle tematiche cyberfemministe e molte donne che operano in rete per la diffusione della cultura femminista e tecnologica. Fatta questa puntualizzazione, un quadro complessivo su cosa sia il cyberpunk ci è indispensabile per due ragioni: da un lato la cultura cyberpunk ha condizionato i temi di riflessione e le modalità di azione di alcuni gruppi cyberfemministi e dall’altro ha fornito un bacino di immagini, figurazioni, atmosfere da cui hanno attinto le studiose impegnate a regalare al femminismo postmoderno un nuovo apparato simbolico.

Il termine cyberpunk si riferisce sia al movimento letterario nato negli anni ottanta come evoluzione del genere fantascientifico, sia ad un movimento politico che si prepone di salvaguardare la democrazia telematica e il libero accesso alle risorse disponibili in rete.

 

1. Il cyberpunk come fenomeno letterario

“Cosa accade alla fantascienza quando il futuro si fa cupo?”[1] Ken MacLeod ci risponde che negli anni sessanta dalla fantascienza classica, solita raccontare di conquiste spaziali e rosei futuri ipertecnologici, nacque la New wave degli scrittori, Ballard, Moorcock, Harrison, insofferenti nei confronti dell’ingenuo ottimismo della produzione precedente. La guerra in Vietnam, l’era del sesso droga e rock and roll, i timori di sovrappopolazione portarono questi autori ad immaginare scenari ben più cupi per i loro racconti, il futuro sembrava non promettere nulla di buono.

Dalla fine degli anni settanta lungo tutti gli anni ottanta il progresso tecnologico compì una virata imprevista. Se la “conquista” della luna, negli anni sessanta, aveva fatto sognare mondi sconosciuti e viaggi interstellari, nella prima metà degli anni ottanta, dopo una gestazione durata oltre un decennio, Internet vedeva la luce. Le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione avrebbero disintegrato le distanze meglio di quanto potesse fare una nave spaziale dell’epoca, ma i nuovi viaggiatori sarebbero stati seduti ai loro terminali, le informazioni avrebbero viaggiato al posto loro.

In questo contesto letterario, tecnologico e sociale, nel 1984, William Gibson pubblica Neuromancer, il romanzo d’apertura del genere cyberpunk.

“Case aveva ventiquattro anni. (…) un sottoprodotto della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio modificato che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice”[2].

Così Gibson presenta l’eroe di un’avventura che non è più una guerra fra i mondi ma che si svolge nel cyberspazio, la realtà virtuale che proprio dal romanzo di Gibson deriva la sua ormai popolare denominazione. I cowboy della consolle percorrono la matrice, “reticoli luminosi di logica dispiegati verso quel vuoto incolore…”[3], ma quando si trovano a vagare per le strade della vita reale il cielo ha il colore della televisione sintonizzata su un canale morto. Scenari che devono molto a quelli descritti dalla New wave e da Dick[4] e messi in scena da Ridley Scott in Blade Runner (1982), film ambientato in una Los Angeles futuribile, costantemente lacerata dalla pioggia e dall’inquinamento, soffocata da inquietanti costruzioni specchio di una società decadente e oppressiva.

William Gibson e Bruce Sterling sono gli autori più significativi della letteratura cyberpunk della prima generazione, padri di uno stile nervoso, dettagliato e analitico, che serve a raccontare di nuovi eroi romantici e perdenti, prostitute, punk, truffatori, pirati informatici, balordi che vivono le loro storie fra cyberspazio e tetri territori urbani degli anni a venire; la forza innovativa ed eversiva del cyberpunk sta proprio nell’essere “un filone letterario che recupera organicamente alcune delle tensioni sociali esistenti”[5], dando voce agli “esclusi” della società post-industriale.

Con un articolo apparso nel 1991 sulla rivista inglese Interzone, Bruce Sterling sancisce la fine del cyberpunk come esperienza letteraria: “gli anni novanta non apparterranno al cyberpunk”[6], scrive, invita i colleghi a superare il lavoro già compiuto e prende le distanze dagli imitatori superficiali. Ma i redattori di Decoder non sono d’accordo, durante gli anni novanta molti scrittori hanno prodotto opere originali in grado di non tradire lo spirito originario della corrente cyberpunk: Neal Stephenson con Snow Crash (1992), Richard Calder con Virus Ginoide (1992) e, non da ultima, Pat Cadigan con Mindplayers (1987), l’unica donna ufficialmente considerata una scrittrice cyberpunk.
 


2. Il cyberpunk come movimento politico

“(…) parlando di cyberpunk si fa riferimento a un complesso di idee, a un insieme di figure narrative e retoriche, ad alcuni autori e gruppi, che sembrano dare espressione politica alle utopie e alle paure collegate agli sviluppi tecnologici di questi anni”[7].

Da questa definizione di Michela Nacci emerge come, nel cyberpunk, fiction ed azione politica si compenetrino e si alimentino reciprocamente. I romanzi di Gibson, i giochi di ruolo praticabili per via telematica, certi videogiochi concorrono all’edificazione di immaginari secondo i quali il problema della tecnica assume un ruolo di primo piano.

Non si può parlare di cyberpunk come di un movimento organizzato e ben definito. Esso non è dotato di un sistema ideologico organizzato ma è piuttosto un insieme di stili e atteggiamenti che danno vita ad un immaginario composito, è il prodotto di voci che agiscono e dibattono del problema della tecnica e del suo rapporto con la politica nell’epoca contemporanea.

Un’altra peculiarità del cyberpunk sta nella sua trasversalità, esso procede e si sviluppa mediante processi di contaminazione, travalica i confini istituzionali fra discipline differenti, fra teoria e pratica, fra la dimensione politica e quella letteraria, fra cultura “alta” e cultura “popolare”[8].

Le reti telematiche, considerate nei loro aspetti tecnici e nel loro essere spazio sociale conflittuale, sono al centro della riflessione e dell’azione politica cyberpunk. La tecnica diventa il terreno cruciale su cui si gioca la partita per la libertà e l’oppressione, in cui si risolve il senso della politica odierna.

 
“La rappresentazione della tecnica come strumento di liberazione e quella della tecnica come minaccia alla sopravvivenza stessa dell’umanità appaiono in questo quadro non due opzioni ideologiche alternative ma due possibili esiti della partita in atto”[9].

 

La tecnica è considerata un elemento ambivalente, né buono né cattivo in sé, oggetto di pessimismo ed ottimismo e, ancora, lo strumento il territorio e l’obiettivo della battaglia in atto.

Fra i temi ricorrenti del cyberpunk Nacci individua la “preoccupazione per un possibile intervento repressivo mirante a chiudere gli spazi liberati”[10], ovvero le comunità virtuali, reti di comunicazione on-line a basso costo, e l’attenzione al tema giuridico del copy right, con particolare resistenza contro l’applicazione dei diritti d’autore ai software, considerata una limitazione alla libera circolazione dell’informazione. Attualmente questi sono temi salienti anche per giuristi e teorici dei media, ma considerevole è il ruolo che il cyberpunk delle origini ha avuto nell’introdurli nell’agenda degli organi istituzionali. L’hacking sociale è la pratica politica di rottura adottata in questa prima fase. Esso si fonda sui Principi dell’etica hacker stabiliti dagli hacker del MIT nel 1961 e dai quali è già evidente lo spirito del movimento:

“L’accesso ai computer – e a tutto ciò che potrebbe insegnare qualcosa su come funziona il mondo – deve essere assolutamente illimitato e completo. (…)

Un libero scambio di informazioni, soprattutto quando l’informazione ha l’aspetto di un programma per computer, promuove una maggiore creatività complessiva. (…)

L’ultima cosa di cui c’è bisogno è la burocrazia. Questa, che sia industriale, governativa o universitaria è un sistema imperfetto (…).

Gli hacker dovranno essere giudicati per il loro operato, e non sulla base di falsi criteri quali ceto, età, razza o posizione sociale.(…)”[11].

Mentre oggi alcuni settori della comunità informatica internazionale, come spiega Nacci nel suo saggio, interagiscono con le istituzioni cercando alternative alla giurisdizione ufficiale anche in termini di regole (basti pensare all’introduzione dello shareware[12]), i primi gruppi di hacker teorizzavano la rottura delle regole, l’illegalità giustificata, secondo loro, dall’importanza della posta in gioco. Sterling sosteneva che limitare alla comunità dei programmatori l’accesso a un software mediante il copy right fosse come sottrarre a un popolo un linguaggio per poi affittarglielo in un secondo tempo.


3. Cyberpunk, postmoderno e femminismo cibernetico

Il cyberpunk è un fenomeno che nasce e si sviluppa nella fase del tardo capitalismo occidentale e, di conseguenza, in un contesto segnato da dominanti culturali di matrice postmoderna.

Al postmoderno lo accomuna la tendenza alla contaminazione degli stili, delle discipline, dei livelli gerarchici delle componenti culturali, l’elevare l’effimero ad oggetto d’analisi per la riflessione sull’epoca contemporanea. La pratica della contaminazione, sia per il cyberpunk che per il postmoderno, rende inoltre evidente la negazione di un soggetto unitario e dell’universalismo. Come ha ben sintetizzato Michela Nacci:

“Come il postmoderno, il cyberpunk non crede a una serie di valori attribuiti al moderno: progresso, civiltà, Occidente, ragione, dominio. Come il postmoderno, non crede soprattutto al soggetto e alla possibilità di discorsi generali”[13].

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come questi temi siano anche cardini del discorso cyberfemminista e femminista postmoderno. Il cyberfemminismo, inoltre, condivide con il cyberpunk la particolare attenzione alla questione della tecnica e il modo di considerarla elemento ambivalente e non innocente. E ancora, il largo uso che entrambi fanno della metafora della rete, sia per significare una comunicazione aperta, non oppressiva, in grado di produrre forme di democrazia telematica, sia per designare la trama di affinità su cui fondare l’azione politica.

Sebbene alcune studiose femministe abbiano criticato certa science fiction per aver tracciato ruoli femminili per certi versi tradizionali, è innegabile il contributo prezioso del cyberpunk al cyberfemminismo in termini di scenari, figure e linguaggio. Il cyborg[14], ad esempio, nato dalla fantascienza e dalla letteratura cyberpunk, è senz’altro una delle più celebri cartografie del soggetto decostruito, scelta da Donna Haraway per descriverne la non-unitarietà, il crollo delle opposizioni e il confondersi dei confini fra uomo e macchina, natura e cultura, maschio e femmina.


NOTE

[1] K. MacLeod, La fantascienza con il futuro che è già arrivato, in Aa.Vv. Millepiani Numero 14, a cura di J. Baudrillard, Cyberfilosofie. Fantascienza, antropologia e nuove tecnologie, Mimesis, Milano, 1998, pp. 39-42.
[2] W. Gibson, Neuromancer, 1984, trad. it. di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Neuromante, Editrice Nord, Milano, 1999, p. 5.
[3] Ibidem, p. 4.
[4] Philiph K. Dick è l’autore di Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), da cui Scott ha liberamente tratto Blade Runner, nel 1982.
[5] Alla ricerca del cyberpunk, articolo parte di un’ipertesto interamente dedicato alla cultura e alla letteratura cyberpunk presente in Decoder. E-rivista internazionale underground, http://www.decoder.it/, l’articolo in questione è reperibile all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/index.htm.
[6] Il cyberpunk è morto, in Decoder. E-rivista…, all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/letterat/secondag.htm
[7] M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Editori Laterza, Roma, 2000, p. 260.
[8] Nel paragrafo precedente abbiamo fatto riferimento alla letteratura cyberpunk e ad alcuni dei romanzieri più conosciuti., ma la cultura cyberpunk è costituita da prodotti eterogenei: riviste, videogiochi, musica, informazione, saggistica, iniziative editoriali. In Italia tra i progetti più significativi annoveriamo la rivista Decoder e la sua versione on-line, le edizioni Shake e la collana Interzone dell’editore Feltrinelli.
[9] M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 273.
[10] Ibidem, p. 270.
[11] L’hacking sociale, articolo parte del già citato ipertesto dedicato al cyberpunk presente in Decoder. E-rivista…, http://www.decoder.it/, l’articolo in questione è reperibile all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/politico/hacksoc.htm.
[12] “(…) un sistema di circolazione del software che separa il momento dell’acquisizione di prodotti da quello dell’erogazione di denaro, in quanto prevede l’uso gratuito ma anche il successivo versamento volontario (…) di una certa somma agli autori di prodotti soddisfacenti”. M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 271. I programmi shareware sono spesso programmi a tempo determinato, ovvero cessano di funzionare dopo un circa un mese dal momento dell’istallazione, a meno che non vengano integrati con un apposito programma che si riceve previo pagamento. Alcuni gruppi di hacker gestiscono siti in cui mettono a disposizione i così detti “crack”, programmi illegali che servono ad utilizzare i software shareware a tempo indeterminato. Questa pratica, molto diffusa, è adottata in particolare per colpire i grandi oligopolisti quali Microsoft, Adobe e Macromedia che hanno imposto standard che neutralizzano il potenziale innovativo dei lavori di programmatori autonomi.
[13] M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 278.
[14] Il termine cyborg sta per organismo cibernetico, ibrido della macchina con un corpo organico.

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SILVANA E’ TUTTE NOI

*Silvana è tutte noi.*

*La violenza contro le donne ha tante facce, l’avevamo già detto il 24
novembre scendendo in piazza contro la violenza maschile sulle donne e
lo abbiamo ribadito oggi in tante città, dal nord al sud d’Italia. La
manifestazione spontanea di oggi è parte di quel percorso che nasce
denunciando la violenza in famiglia, luogo primario in cui si
sedimentano le relazioni di potere fonti di oppressione dell’uomo sulla
donna. Percorso che rivendica la riappropriazione dei nostri spazi di
autoderteminazione passando per il rifiuto di ogni delega alle istituzioni.*

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IL RITORNO DEL MASCHIO di Natalia Aspesi

Non era mai capitato neppure ai tempi tragici della clandestinità, quando i giornali non pubblicavano per pudore la parola infamante, aborto; quando prosperavano cliniche con professoroni che liberavano a caro prezzo dall’incomodo le signore abbienti.
Mentre le altre, una moltitudine silenziosa di donne umiliate, precipitava nelle mani di improvvisate mammane (che venivano anche chiamate per non offendere i lettori, fabbricanti di angeli) o si arrangiavano malamente da sole. Di clandestinità, allora, sino all’approvazione della legge 194 nel 1978, spesso le donne morivano o restavano per sempre rovinate.
Pare insopportabile, in tempi che dovrebbero essere civili, essere costretti dal vergognoso episodio al Policlinico di Napoli, a ricordare, riraccontare per l’ennesima volta, storie del passato di solitudini femminili desolate, dato che quella legge vige da 30 anni e ha fatto
precipitare il numero di aborti (dal 1982 del 44%).

Ai tempi della criminalizzazione, quando per il nostro codice l’aborto era ancora un delitto ‘contro l’integrità e la sanità della stirpe’, per esempio nel 1968, al 53° congresso di ostetricia a Bologna, si parlò di 3.500.000 aborti procurati l’anno, stabilendo quindi che nel periodo fecondo due donne su tre abortivano. Era probabilmente una esagerazione,
tanto che l’Onu parlò per l’Italia di 1.200.000 aborti: nel 2006 sono stati 130.033, un bel salto.

La legge puniva da 2 a 5 anni sia la donna che chi l’aiutava ad abortire, se si arrangiava da sola, il delitto pareva meno grave e la pena era più mite, da 1 a 4 anni. In realtà la legge chiudeva tutti e due gli occhi: in dieci anni, dal 1955 al 1965, le statistiche giudiziarie parlano di 150 casi di aborto procurato, mentre quelle mediche ne registrano milioni.

Quel dolore solo femminile ce l’hanno ricordato il bel film rumeno 4 mesi tre settimane e 2 giorni di Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes nel 2007, (che ha scioccato per la ripresa del feto) e ancor prima Mike Leigh in Il segreto di Vera Drake, Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2004, e addirittura nel 1988, Claude Chabrol, con Un affare di donne.

Ma ciò che è avvenuto nell’ospedale napoletano, è talmente clamoroso e cinico da rasentare un atto di terrorismo, come terroristica sta diventando la campagna pro-life che potrebbe stravolgere sino alla ferocia l’andamento di quella elettorale.

Susanna Tamaro, che lancia in questi giorni il suo nuovo romanzo, Luisito, invitata da Giuliano Ferrara a entrare nella lista dei suoi candidati anti-aborto, ha gentilmente rifiutato, con una lettera pubblicata ieri sul Foglio, dichiarandosi tuttavia con lui ‘nella passione con cui tu porti avanti questa tua lotta per la vita’.
Probabilmente non sapeva ancora dell’irruzione di ben sette poliziotti nell’ospedale napoletano, con interrogatori alla madre ancora sotto anestesia, ai medici, alla vicina
di letto, e al sequestro del ‘corpo di reato’, il feto.

Un evento così punitivo, tenebroso e inutile (l’intervento rispettava la legge) segna
l’inizio di una guerra per niente etica e del tutto politica, per assicurare al movimento di Ferrara e quindi alla destra l’appoggio elettorale della potente macchina del clero, una guerra che potrebbe farsi sempre più feroce e vergognosa. E intanto i già pochi medici che non si sono dichiarati obiettori di coscienza, dopo questa offensiva poliziesca,
adesso saranno sempre più tentati di farlo; ma non basterà a convincere le donne che hanno deciso di abortire, a cambiare idea, solo che potrebbe succedere che, pur in presenza di una legge che lo consente, non avranno altra scelta che tornare ai tempi della clandestinità, rivolgendosi a medici magari obiettori e molto costosi, come è già capitato, o a Vere Drake si spera più abili del passato, o a trafficanti di Ru486.

Le nuove vittime saranno soprattutto le immigrate, abbandonate a se stesse e a una vita precaria che potrebbero non voler imporre a un incolpevole nascituro. E’ interessante che i
nostri pro-life che odiano la vita e soprattutto il potere delle donne sul loro corpo, un tempo patrimonio maschile di scambio, abbiano scelto come primo campo di battaglia quella parte della legge che sposta al secondo trimestre di gravidanza la liceità
dell’aborto terapeutico se il feto risulta malformato al punto da assicurargli, se dovesse
nascere, una morte precoce o una vita-non vita, e alla madre, ai genitori, un futuro di inevitabile quotidiana sofferenza. E alla società quell’organizzazione di cure e aiuto che oggi non riesce ad assicurare a tutti i cittadini e non solo a quelli colpiti da handicap.

Puntando per ora sull’aborto terapeutico lo ingigantiscono come una specie di genocidio, che non è, arrivando al 2,7% di interventi dopo la 13esima settimana; e cui obbligano a immaginare una parvenza di vita in quel feto malato, con inevitabili dubbi, disagio, sensi di colpa. E’ inevitabile che poi si passerà, malgrado le attuali assicurazioni, all’assalto agli
articoli di legge che consentono l’aborto nel primo trimestre, in uno scontro assurdo attorno a una legge di cui qualsiasi donna credente e no può non servirsi, non impedendo però alle altre, sempre di meno, di farlo.

Ciò che è impressionante in questa offensiva lunatica è che tutti quei raduni di alte gerarchie in veste nera e zucchetto cremisi, tutte le perorazioni di agguerriti e spesso mendaci predicatori cosiddetti laici, avvengono tra maschi. A parte qualche sporadica donna (Binetti, Scaraffia, Tamaro, e altre) è soprattutto maschile la piccola folla che vuole
decidere su qualcosa che riguarda solo il corpo della donna, il suo cuore, il suo futuro, il suo legame col figlio. Una sofferenza, un senso di impotenza, una paura che gli uomini non conosceranno mai, per cui alla loro spietata etica in difesa astratta di una generica vita, dovrebbe sovrapporsi il rispetto per chi sceglie di non diventare madre, di non volere mettere al mondo un figlio non desiderato o casuale cui non potrà assicurare il  necessario amore.

Questi paladini di qualcosa che chiamano vita soprattutto pensando di dare lustro politico alla loro, sanno poco dei tempi, sino a qualche decennio fa, in cui gli uomini erano bravissimi a far di tutto per portare a letto una ragazza, a lasciarla disgustati perché un
gentiluomo sposa solo una vergine e, nel caso la sedotta pasticciona rimanesse incinta, a lavarsene le mani, nell’approvazione generale: ‘Non sono stato io!’ era il nobile grido.
Mi assicurano che anche oggi, le sventate che non si preoccupano da sole di difesa contraccettiva, se lo sentono dire da quelli che si chiamano sportivamente partners, cui
non passa per la testa che anche loro hanno delle responsabilità.

Prima del liberatorio ’68, c’erano ancora genitori che cacciavano di casa le ragazze madri il cui figlio senza padre diventava il bastardo. Adesso la modernità suggerisce altro: e per esempio in Desperate Housewives la perfetta Bea per non fare brutta figura coi vicini,
nasconde la figlia nubile incinta e fa finta di essere lei la madre attempata del bambino
che nasce. Ma in passato, importava a qualcuno il destino di una madre e di un figlio colpevoli di non avere un pater familias? Importa oggi a qualcuno che si inginocchia davanti a una non meglio specificata vita (pur che sia in forma di embrione o feto,
perché le migliaia di donne, vecchi e bambini che muoiono orrendamente in Darfur non suscitano il minimo interesse)?.

In tutto questo sterile vociare, con eventi vergognosi come quello di Napoli, manca una voce, non quella dei politici o dei teologi o dei medici che infatti dicono la loro, manca quella degli eventuali padri. Le donne alla fine, sono sempre sole, ogni responsabilità di vita è troppo spesso solo loro. Non basta offrire elemosine, come se avere o non avere un
figlio fosse solo una questione di soldi. Non basta chiamarle assassine come ha fatto
ridicolmente e colpevolmente Ferrara: si tratta di un termine storico, anzi antico.

Un indimenticabile vecchio articolo di Guido Ceronetti, lo scrittore che sosteneva la necessità della legge che liberasse le donne dal marchio di criminali (contro la stirpe poi) cominciava più o meno: "Un’assassina ogni mattina mi rifà il letto, un’assassina mi
prepara la colazione, un’assassina…".
(14 febbraio 2008)

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Il “ruggito della leonessa” ha spaventato la feccia della società borghese

Da http://capireperagire.blog.tiscali.it//

L’omicidio secondo l’articolo 575 del vigente codice penale consiste nel cagionare "la morte di un uomo".  L’art. 578 punisce "La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto…"[1].

Pertanto, le leggi penali vigenti prevedono l’omicidio vero e proprio nel senso della morte procurata di un uomo, cioè di una persona (maschio o femmina) già venuta al mondo, da quando è uscita dalla sfera (riproduttiva) materna in poi; oppure di un neonato appena partorito, fino al caso estremo di un feto durante il parto (naturale).

Quindi, non è considerato, e non è (mai stato, neppure dal Codice fascista), omicidio l’aborto, neppure negli ultimi giorni della gravidanza, purchè precedenti le doglie.

Allora, la canea reazionaria sollevata (guarda caso poco dopo la grande manifestazione delle donne a Roma contro la violenza maschile del 24/11/07) sulla "moratoria dell’aborto", l’"aborto come omicidio", protocolli restrittivi per l’aborto terapeutico, fino all’aborto sotto stretto controllo poliziesco (Napoli, II Policlinico, 11/2/08, v. post), costituiscono l’escalation di una campagna di intimidazione e di terrorismo patriarcale-clericale-statale contro il "ruggito della leonessa", cioè contro il nascente, nuovo, movimento di lotta femminile contro il patriarcato, il capitalismo e lo stato.

Riuscirà questa campagna a fermare le "nuove femministe"? O le costringerà a mobilitarsi, ad organizzarsi, affinando la propria critica al sistema, ed a rafforzarsi ancor più?

[1] Per l’art.19 della Legge 194/1978: "Chiunque cagiona l’interruzione volontaria della gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate negli articoli 5 o 8, è punito con la reclusione sino a tre anni. La donna è punita con la multa fino a lire centomila. Se l’interruzione volontaria della gravidanza avviene senza l’accertamento medico dei casi previsti dalle lettere a) e b) dell’articolo 6 o comunque senza l’osservanza delle modalità previste dall’articolo 7, chi la cagiona è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La donna è punita con la reclusione sino a sei mesi. Quando l’interruzione volontaria della gravidanza avviene su donna minore degli anni diciotto, o interdetta, fuori dei casi o senza l’osservanza delle modalità previste dagli articoli 12 e 13, chi la cagiona è punito con le pene rispettivamente previste dai commi precedenti aumentate fino alla metà. La donna non è punibile."

 

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– Feminist review, vol. 87, 2007, dedicato ai femminismi italiani, curato da Nirmal Puwar e Jaqui Andall in collaborazione con il gruppo Sconvegno di Milano: il tema del lavoro delle donne, del lavoro precario, della precarietà esistenziale attraversa tutto il numero. Mi dispiace, è in inglese. Insieme alle Sconvenienti, siamo in contatto con l’editore di FR, Palgrave per pubblicare almeno parte dei materiali in italiano, sul sito di Posse on line (http://www.posseweb.net/)

http://www.feminist-review.com/

– Articolo di Marta Malo de Molina (Precarias a la deriva) sull’inchiesta e la conricerca, dove molto spazio trova la pratica dell’autocoscenza, come pratica fondamentale nella costruzione di momenti di soggettivazione nel/sul lavoro al fine di creare consapevolezza e conflitto (le narrazioni dei soggetti sul/nel lavoro precario in Italia sono state, in questo scorcio, determinanti). Anche qui, la lingua non ci favorisce del tutto (in inglese, tedesco, spagnolo, russo, suomi, svedese ;-))

http://transform.eipcp.net/transversal/0406/malo/en

– Ricerca che ho svolto, per conto del Comitato di redazione della Rcs Periodici, sul lavoro dei giornalisti e delle giornaliste free lance (centrale è il processo di femminilizzazione del lavoro in Lombardia, in generale, nonché nel settore editoriale, in particolare. Va notata la dimensione produttiva tout court che vanno assumendo l’informazione – e la relazione – all’interno del nuovo paradigma di accumulazione – cognitivo).

http://www.lsdi.it/documenti/Lsdi-RicercaRcs.pdf

– Silvia Federici, George Caffentzis "Notes on Edu-factory and cognitive capitalism" (dove si mette in discussione, almeno parzialmente, il concetto di capitalismo cognitivo all’interno della divisione del lavoro a livello globale e tra generi). In inglese, pure questo 😉

http://www.commoner.org.uk/12federicicaffentz.pdf

– Articolo di Elettra Deiana su donne reddito e welfare state

http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=54

– Articolo di Paola Monti  (lavoce.info) sul peso e sul valore (in relazione al Pil) del lavoro di riproduzione femminile

http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000139.html

 

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