IL CYBERFEMMINISMO

Da: http://www.tramanti.it/conten/testi/cyberfemm/femmcyb_intro.htm


Femminismo e nuove tecnologie: il nesso

 

Che senso ha mettere in relazione le istanze del femminismo contemporaneo con un concetto apparentemente vago quale quello di “nuove tecnologie”? In che senso può giovare alle politiche femminili e femministe una riflessione sul cyberspazio e sulle nuove frontiere raggiunte dalla scienza?
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Il contesto

La Postmodernità. L’epoca della crisi delle grandi narrazioni dell’Occidente che ha avuto origine, fra l’altro, dalla fine dell’imperialismo europeo, e dall’affermarsi del sistema dei mass media prima e delle nuove tecnologie dell’informazione poi. Un simile contesto ha generato una sorta di caos più a livello epistemologico che materiale. Un caos fecondo in cui, secondo i teorici del post-modernismo, risiede il potenziale liberatorio della nostra era. Un contesto che può offrire spazio ai dialetti, ai margini, ai discorsi delle minoranze che, fin’ora, non hanno avuto voce. Un momento di possibili ricollocazioni per soggettività differenti da quella dominante in epoca moderna, individuato da molte teoriche femministe come un possibile punto di svolta, un treno da non perdere.
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Le nuove tecnologie

Un discorso sulle nuove tecnologie è dunque un discorso sulla genesi e sul tessuto della società contemporanea. Ma il concetto di nuove tecnologie comprende realtà sensibilmente eterogenee che coinvolgono la riflessione femminista su temi anche distanti fra loro.
Il Cyberspazio è l’ambito al quale dedicheremo maggiore attenzione. Abbracciamo la definizione di Cyeberspazio come di uno spazio sociale altamente conflittuale in cui coesistono e si intrecciano discorsi molteplici. Uno spazio sociale in cui i soggetti vivono, comprano, si relazionano, sperimentano identificazioni, mettono in comune esperienze e saperi. Ma anche uno spazio conflittuale, in cui le forze in gioco sono i poteri forti che lo hanno prodotto e tutti quei soggetti che entrano in rapporto dialettico con questi per ottenere visibilità e fondarne il senso. In questo contesto è fondamentale, per le donne, essere soggetti attivi, che concorrono alla significazione di uno spazio che sta rischiando di divenire l’ennesima colonia del patriarcato capitalista bianco.
 
La ricerca contemporanea ha concentrato enormi risorse anche nel campo delle bio-tecnologie. La mappatura del genoma umano, la procreazione assistita, l’ingegneria genetica rappresentano le frontiere della scienza odierna e aprono grandi contraddittori in seno alla critica femminista. Tali ricerche, infatti, agiscono in direzione del controllo del sé corporeo, istituiscono un nuovo significante universale, il genoma, attraverso cui spiegare l’”essenza” del soggetto, fondono il tecnico con l’organico al fine di potenziare le capacità del corpo verso una sorta di “ibrido bionico”, coinvolgono la donna in modo particolare perché ampliano le possibilità della riproduzione, manipolano la fecondazione e addirittura poterbbero sollevare la madre dall’onere della gestazione. Le filosofe moderniste vedono nelle tecnologie di riproduzione un tentativo di espropriazione da parte del patriarcato di ciò che di esclusivo c’è nell’essere donna; mentre le cyberfemministe hanno sviluppato un approccio pro-tecnologico ed individuano in tali tecnologie la possibilità di liberarsi dagli imperativi biologici della maternità.
 
Ma esse vanno oltre, cercando di ripensare la scienza attuando una critica radicale all’idea di ragione, storicamente e strutturalmente legata al dominio e alla mascolinità e proponendo una nuova dottrina dell’oggettività femminista: i saperi situati.

Ripensare il soggetto femminista: il cyborg.
In un contesto in fieri, permeato dalla tecnologia e dall’immaginario che ne deriva, il femminismo contemporaneo avverte la necessità di ridefinire se stesso, il proprio modo di essere soggetto politico, la propria epistemologia. Fondamentale, in questo senso, l’opera di Haraway che ha compreso l’urgenza di creare un nuovo linguaggio per poter pensare il mondo in modo differente. Contribuisce a questo processo inventando figurazioni (il cyborg è la più celebre ed emblematica) che permettano di scardinare i dualismi del pensiero fallologocentrico. Il cyborg è infatti l’ibrido per eccellenza, riassume e confonde le opposizioni alla base della nostra cultura: natura/cultura, organico/meccanico, femminile/maschile…
 

Lo sguardo politico

Prendendo a riferimento le tre differenti prospettive in cui si articola la teoria femminista (teorie dell’uguaglianza, della differenza, della decostruzione), cercheremo di capire quali realtà presenti nel cyberspazio, o legate alle nuove tecnologie in generale, possano essere viste come strumentali agli obiettivi che il femminismo si prepone.
Quali sono gli spazi della rete nati per supportare il percorso femminile verso l’emancipazione? Tutti quei siti nati per incrementare la parità dei diritti e delle opportunità, da quelli che svolgono un servizio puramente informativo (istituzioni per le donne, concorsi, leggi), a quelli che supportano iniziative concrete (la banca del tempo, ad esempio), dai siti di denuncia sociale a quelli di sostegno a campagne di sensibilizzazione a livello globale.
Ci sono poi spazi dedicati alla definizione di una cultura femminile che è sempre esistita, anche se messa a tacere per lungo tempo? Siti che danno voce al femminile e alle sue produzioni artistiche e culturali?
E infine, in un ottica post-moderna, in che senso il cyberspazio può essere un luogo privilegiato per la sperimentazione di nuove identificazioni per il soggetto donna? Per la decostruzione di quel significante-donna che discende dal paradigma patriarcale?
 

I rischi

Se da un lato le nuove tecnologie appaiono gravide di opportunità, dall’altro non sono esenti da pericoli ed esclusioni. Molti sono i fattori che limitano la democraticità del cyberspazio, ad esempio, accesso, predominanza della lingua inglese, know-how tecnologico, omologazione culturale di matrice americana, visibilità, comportamenti scoraggianti nei confronti delle donne o delle minoranze in genere…
Un’analisi delle possibilità che le nuove tecnologie offrono non può prescindere da uno sguardo attento sui rischi e le discriminazioni cui potenzialmente si accompagnano.


Cyberfemminismo: verso una definizione

Il cyberfemminismo è un fenomeno recente ed eterogeneo tanto da sfuggire a facili tassonomie. Ci proponiamo di realizzare un breve itinerario per analizzare il termine cyberfemminismo e il suo significato e per esplorare la nascita del movimento attraverso le definizioni che di esso hanno dato le sue iniziatrici e le prime studiose che se ne sono interessate.

 

Il termine Cyberfemminismo, genesi e significato

Il neo-logismo cyberfemminismo ha origine incerta. Kira Hall[1] sostiene che diverse teoriche siano arrivate a farne uso in modo autonomo l’una dall’altra. Le artiste di VNS Matrix lo adottarono nel 1991 per denominare il secondo lavoro del gruppo, il Cyberfeminist Manifesto for 21st Century[2], un’opera provocatoria e “al femminile” volta a delineare l’intento politico e di rottura del collettivo e a sottolineare l’atteggiamento di assoluto non vittimismo che lo contraddistingueva. Sadie Plant parlò di cyberfemminismo, indipendentemente dal VNS Matrix, in una serie di brevi articoli pubblicati intorno al 1993, considerandolo sia da un punto di vista filosofico che di attivismo politico. Come essa stessa puntualizza in un’intervista:

 
“I started using the word quite indipendently of any other use I’d come across. I’d never seen the word used before. Cyberfeminism to me implies an alliance between women, machinery and new technology that women are using”.[3]

Già da questa breve affermazione è possibile ravvisare il carattere tendenzialmente utopistico dell’analisi che Plant fa della relazione esistente fra donne e tecnologie.

Fu solo nel 1994 a Londra, durante la conferenza “Seduced and Abandoned: The Body in the Virtual World”, che il termine cyberfemminismo venne introdotto nel dibattito accademico ufficiale; in quell’occasione se ne parlò come di una derivazione del “cyborg feminism” proposto da Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, edito per la prima volta nel 1991 negli Stati Uniti. Dall’inizio degli anni novanta ad oggi parecchie studiose hanno contribuito ad accrescere la popolarità del neo-logismo in questione, diventato ormai di uso comune negli ambiti accademici connessi agli Women’s Studies.


Ma cosa s’intende per cyberfemminismo?

Il termine è frutto della fusione di cyber e feminism. Se sul significato di feminism, femminismo, non ci soffermiamo oltre, un po’ d’attenzione è opportuno rivolgerla al prefisso cyber, che deriva dal greco kybernàn e sta per pilotare; esso evoca una serie di neo-logismi quali cybernetics, cyberpunk e cyberspace[4] che rimandano ad ambiti cui il cyberfemminismo è connesso. Cybernetics è il termine che indica la scienza delle macchine capaci di autoregolarsi e ci introduce nell’ambito delle tecnologie avanzate, dello studio dell’intelligenza artificiale e di una sorta di potenziale permeabilità fra l’essere umano e la macchina intelligente. Fantasie di continuità fra il mondo virtuale e quello cerebrale sono al centro della letteratura cyberpunk, che, negli anni ottanta, ha rivoluzionato il genere fantascientifico. William Gibson, uno dei padri di questa corrente letteraria, ha reso celebre il termine cyberspace che, evinto dall’ambito scientifico in cui è nato, è servito all’autore per denominare le “autostrade telematiche” su cui viaggiavano i suoi futuristici cowboy. Per cyberspazio oggi s’intende quello spazio virtuale che sta dietro lo schermo e in cui si svolgono le operazioni che eseguiamo coi nostri terminali, sia quelli dei pc, sia quelli che si trovano negli sportelli del Bancomat, delle informazioni ferroviarie, eccetera, lo spazio in cui sono “collocate” le risorse a cui accediamo navigando in Internet, in cui viaggiano i messaggi di posta elettronica, in cui si svolgono le conversazioni mediate dal computer.

È facile intuire come il cyberfemminismo abbia a che fare con il femminismo e con le nuove tecnologie. Nel saggio introduttivo all’edizione italiana del Manifesto Rosi Braidotti scrive:

“Cyber feminism è il movimento di pensiero, ma anche di attività politica, che si situa nelle nuove frontiere del cyberspazio e cerca di utilizzare le nuove tecnologie a favore delle donne”[5].

E, potremmo aggiungere, di tutte le minoranze discriminate. Partiamo da questa definizione perché, nella sua genericità, traccia confini estesi e permeabili in grado di comprendere le diverse realtà che rientrano nel discorso cyberfemminista e che cercheremo di esplorare lungo il nostro percorso. Essa include l’attività politica a favore delle donne: ovvero tutte quelle forme di confronto, diffusione di informazioni, formazione (in ambito tecnologico ma non solo), sensibilizzazione dell’opinione pubblica, che eleggono il cyberspazio a campo d’azione privilegiato; e, ancora, include il movimento di pensiero, cioè tutto il lavoro teorico che le donne stanno tessendo intorno al tema delle nuove tecnologie, la valutazione delle opportunità che offrono, dei rischi di esclusione che comportano, l’individuazione dei nodi teorici che chiamano in causa, ma anche il lavorio simbolico prodotto dalle donne che in rete esibiscono arte e sperimentano identità e scenari alternativi.

 


Il First Cyberfeminist International: il movimento rifiuta di definirsi  

The First Cyberfeminist International, che si tenne a Kassel, Germania, dal 20 al 28 settembre 1997, parte dell’Hybrid Workspace at Documenta X, fu una delle prime occasioni in cui le cyberfemministe della prima ora ebbero modo di incontrarsi, confrontarsi ed avviare un discorso su cosa fosse quel movimento cyberfemminista di cui, ciascuna a modo suo, dicevano di sentirsi parte. L’evento coinvolse 38 donne provenienti da 12 stati[6] e fu organizzato dal gruppo di attiviste che aveva fondato a Berlino, nella primavera dello stesso anno, l’Old Boys Network[7], un sito cyberfemminista animato dall’intento di fornire spazi virtuali (liste di discussione, articoli disponibili sul sito, rete di connessioni con altri siti affini) ma anche fisici (organizzazione di incontri) in cui studiose, artiste e attiviste cyberfemministe potessero svolgere ricerca, confronto e sperimentazione.
Durante gli interventi, i progetti web e i workshop del First Cyberfeminist International furono trattati i temi caldi del cyberfemminismo, fra i quali: la costruzione di identità alternative in Internet e la rappresentazione che le donne danno di sé mediante gli avatar, le teorie relative alla visibilità della differenza sessuale nella rete, l’hacking, la pornografia al femminile e il cybersex, le strategie per combattere gli stereotipi, l’essenzialismo e le rappresentazioni sessiste delle donne, l’analisi dei progetti artistici femministi con fini politico-strategici, i modelli alternativi per la formazione tecnologica, le proposte per sostenere e organizzare progetti femministi di networking nei diversi stati.

Uno degli argomenti di discussione che coinvolse a lungo le partecipanti dell’incontro di fu relativo alla possibilità di dare una definizione, o meno, del movimento cyberfemminista. Si arrivò alla conclusione che il cyberfemminismo potesse essere definito solo per negazione e non con improduttive ed escludenti spiegazioni. In quell’occasione non venne redatto alcun manifesto programmatico ma si individuarono le 100 antitesi del cyberfemminismo, ovvero una lunga lista di affermazioni su ciò che il cyberfemminismo non è. Ne riportiamo alcune:

 

“2. cyberfeminism is not a fashion statement

18. cyberfeminism is not an ism

19. cyberfeminism is not anti-male

22. cyberfeminismo no es uns frontera

26. cyberfeminism is not separatism

27. cyberfeminism is not a tradition

30. cyberfeminism is not without connectivity

49. cyberfeminism is not solid

50. cyberfeminism is not genetic

72. cyberfeminism is not neutral

79. cyberfeminism is not science fiction

81. cyberfeminism is not an empty space

88. cyberfeminism is not a non-smoking area

92. cyberfeminism is not lady.like

98. cyberfeminism is not dogmatic

100. cyberfeminism has not only one language”[8]

vedi : http://www.obn.org/cfundef/100antitheses.html

 
Da una riflessione su queste affermazioni emergono, al di là del tono a volte divertito, provocatorio, volutamente contraddittorio, alcune peculiarità dei gruppi cyberfemministi attivi in Internet. Il cyberfemminismo non è un “ismo”, non è “dogmatico” e non è “neutrale” si pone criticamente nei confronti delle grandi narrazioni essenzialistiche dell’epoca moderna. Il cyberfemminismo non è una “signora” o “un’area per non fumatori”, potremmo dire “non è educato”, alcuni di questi gruppi infatti fanno dell’ironia, della parodia, della provocazione strategie per contrastare gli stereotipi relativi alle donne e al loro rapporto con le tecnologie. Il cyberfemminismo poi “non parla una sola lingua”, travalica le frontiere geografiche ma non solo, le molte lingue appartengono forse alle realtà eterogenee che esso comprende evitando, appunto, di definirsi positivamente, preferendo accogliere la pluralità come ricchezza. E ancora, il cyberfemminismo non è “anti-maschio”, non è “tradizione” e non è “separatismo” queste negazioni evidenziano una presa di distanza dal femminismo tradizionale e dalle sue crociate.

Definirsi per essere soggetto politico

Ma un non-soggetto, quale si descrisse il movimento cyberfemminista per voce di alcune sue rappresentanti, ha davvero visibilità e voce nel dibattito politico, sociale e culturale in atto? Il rifiuto a definirsi finisce per essere anche un rifiuto a collocarsi e, di conseguenza, ad essere un soggetto politico a tutti gli effetti.

Faith Wilding, un’artista del multi-media e scrittrice americana che partecipò al First Cyberfeminist International, comprese questo problema e prese le distanze dall’atteggiamento di rifiuto ad autodefinirsi emerso durante l’incontro di Kassel in un articolo uscito dopo il congresso:

“While refusing definition seems like an attractive, non-hierarchical, anti-identity tactic, it in fact plays into the hands of those would prefer a net quietism: Give a few lucky women computers to play with and they’ll shut up and stop complaining”.[9]

La Wilding si sofferma sui rischi a cui può portare l’atteggiamento eccessivamente autoreferenziale assunto durante le teorizzazioni sull’impossibilità, per il movimento cyberfemminista, di darsi delle coordinate “positive”. Mentre ci si perde nel tentativo teorico di non creare esclusioni mediante l’uso, o meno, di definizioni si sta combattendo la lotta per l’accesso e la colonizzazione delle risorse informatiche. Il computer e la rete non sono per tutti, e nello stesso tempo sono strumenti di potere e di sapere. Essi offrono al cyberfemminismo l’opportunità di rivolgersi ad un pubblico trans-nazionale e possono essere una possibile via d’accesso al discorso politico femminista. Ma ogni forma di comunicazione, quella politica in particolare, necessita di un mittente e di un destinatario e di informazioni contestualizzate.

“(Self)defintion can be an emergent property that arises out practice and changes with the movement of desire and action. Definition can be fluid and affirmative – a declaration of strategies, actions, and goals. It can create crucial solidarity in the house of difference – solidarity, rather than consensus – solidarity that is a basis for effective political action”[10].

Una definizione, seppur fluida e permeabile, è un punto di partenza fondamentale per la realizzazione di un’azione politica concreta. Definirsi mediante obiettivi, strategie e azioni condivise serve a creare solidarietà fra le parti in gioco e ad assumere la forma di soggetto collocato, attivo, “parlante”.

 
NOTE


[1] K. Hall, Cyberfeminism, in Computer-mediated communication. Linguistic, social and cross-cultural perspectives, edited by Susan C. Herring, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia, 1996, p.168.
[2] VNS Matrix fu un collettivo australiano che si occupò di arte multimediale dal 1991 al 1997. Era formato da quattro artiste: Josephine Starrs, Francesca da Rimini, Julianne Pierce e Virginia Barratt, che lasciò il gruppo nel 1996. Su Internet è possibile vedere il Cyberfeminist Manifesto for 21st Century all’indirizzo http://sysx.org/vns/.
[3] Questa affermazione è tratta da un’intervista rilasciata da Sadie Plant a RosiX, reperibile nel sito d’arte digitale http://rorschach.test.at/, all’indirizzo http://rorschach.test.at/mindflux/mv2-articles/nutek.html.
[4] Per un’approfondimento sulle definizioni relative alla terminologia legata al cyberfemminismo si veda R. Braidotti, La molteplicità: un’etica per la nostra epoca, oppure meglio cyborg che dea, introduzione a D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 11-12.
[5] Ibidem, p. 12.
[6] La lista completa delle partecipanti, provenienti per lo più da Australia, Stati Uniti, diversi stati europei e alcuni paesi dell’est, è disponibile sul sito delle Old Boys Network all’indirizzo Internet http://www.obn.org/kassel/participants.htm. Esplorando i siti di ciascuna delle donne presenti all’incontro di Kassel si scopre che esse sono per lo più artiste, studiose, professioniste nell’ambito delle nuove tecnologie dell’informazione, che hanno aperto spazi in Internet per esibire nuove forme artistiche, per creare spazi di confronto e sensibilizzazione sullo stato d’emancipazione delle donne, per alimentare la discussione sulle nuove forme di femminismo che si stanno affermando.
[7] L’Old Boys Network fu fondato da Susanne Ackers, Julianne Pierce, Valentina Djordjevic, Ellen Nonnenmacher e Cornelia Sollfrank ed è tutt’ora attivo e reperibile all’indirizzo Internet http://www.obn.org/.
[8] La lista completa delle 100 antiesi del cyberfemminismo è consultabile sul sito delle Old Boys Network all’indirizzo Internet http://www.obn.org/cfundef/100antitheses.html.
[9]  F. Wilding, Where is Feminism in Cyberfeminism?. L’articolo è reperibile in Internet all’indirizzo http://www-art.cfa.cmu.edu/www-wilding/wherefem.html.
[10] Ibidem.


Le radici del Cyberfemminismo: dal postmoderno al cyberpunk.

Il cyberfemminismo è un movimento eterogeneo e di recente formazione. Non ha un manifesto programmatico unitario, non ha dei dogmi a cui rifarsi e neppure pochi obiettivi comuni da perseguire a denti stretti. Ma su cosa si concentra, dunque, la riflessione teorica cyberfemminista?

Il discorso cyberfemminista non è originale nei suoi presupposti teorici quanto nel territorio che sceglie di esplorare: il cyberspazio. Ciò significa che il corpus teoretico e politico del movimento è opera di studiose, attiviste e artiste di estrazione eterogenea, che assumendo prospettive anche dissonanti si confrontano con le nuove tecnologie della comunicazione cercando di individuarne le valenze a favore delle donne.

Per questa ragione inizieremo ad indagare la teoria cyberfemminista partendo dai paradigmi teorici che la caratterizzano. I temi chiave del pensiero femminista postmoderno, le questioni affrontate dalla queer theory, le problematiche individuate da Haraway, le correnti che costituiscono la cyber theory, i temi d’interesse del cyberpunk politico e il denso immaginario prodotto dal cyberpunk letterario. Questo primo percorso non si focalizza sulle singole ricerche che sono state portate avanti in campo cyberfemminista ma tratteggia il contesto culturale in cui il movimento si colloca.


Cyberpunk e Cyberfemminismo

 
1. Il cyberpunk come fenomeno letterario

2. Il cyberpunk come movimento politico

3. Cyberpunk, postmoderno e femminismo cibernetico

Alcuni studiosi considerano il cyberfemminismo una manifestazione del cyberpunk. Secondo la definizione allargata di cyberfemminismo da cui abbiamo scelto di partire, questa relazione fra i due fenomeni risulta quantomeno riduttiva. Marcatamente cyberpunk sono i gruppi di attiviste cyberfemministe che si collocano nell’area net-utopica e le cyber-grrl che animano siti, magazine, portali on-line; di tutt’altra estrazione socio-culturale sono invece alcune delle teoriche che pure contribuiscono all’evoluzione e alla riflessione sulle tematiche cyberfemministe e molte donne che operano in rete per la diffusione della cultura femminista e tecnologica. Fatta questa puntualizzazione, un quadro complessivo su cosa sia il cyberpunk ci è indispensabile per due ragioni: da un lato la cultura cyberpunk ha condizionato i temi di riflessione e le modalità di azione di alcuni gruppi cyberfemministi e dall’altro ha fornito un bacino di immagini, figurazioni, atmosfere da cui hanno attinto le studiose impegnate a regalare al femminismo postmoderno un nuovo apparato simbolico.

Il termine cyberpunk si riferisce sia al movimento letterario nato negli anni ottanta come evoluzione del genere fantascientifico, sia ad un movimento politico che si prepone di salvaguardare la democrazia telematica e il libero accesso alle risorse disponibili in rete.

 

1. Il cyberpunk come fenomeno letterario

“Cosa accade alla fantascienza quando il futuro si fa cupo?”[1] Ken MacLeod ci risponde che negli anni sessanta dalla fantascienza classica, solita raccontare di conquiste spaziali e rosei futuri ipertecnologici, nacque la New wave degli scrittori, Ballard, Moorcock, Harrison, insofferenti nei confronti dell’ingenuo ottimismo della produzione precedente. La guerra in Vietnam, l’era del sesso droga e rock and roll, i timori di sovrappopolazione portarono questi autori ad immaginare scenari ben più cupi per i loro racconti, il futuro sembrava non promettere nulla di buono.

Dalla fine degli anni settanta lungo tutti gli anni ottanta il progresso tecnologico compì una virata imprevista. Se la “conquista” della luna, negli anni sessanta, aveva fatto sognare mondi sconosciuti e viaggi interstellari, nella prima metà degli anni ottanta, dopo una gestazione durata oltre un decennio, Internet vedeva la luce. Le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione avrebbero disintegrato le distanze meglio di quanto potesse fare una nave spaziale dell’epoca, ma i nuovi viaggiatori sarebbero stati seduti ai loro terminali, le informazioni avrebbero viaggiato al posto loro.

In questo contesto letterario, tecnologico e sociale, nel 1984, William Gibson pubblica Neuromancer, il romanzo d’apertura del genere cyberpunk.

“Case aveva ventiquattro anni. (…) un sottoprodotto della giovinezza e dell’efficienza, collegato a un deck da cyberspazio modificato che proiettava la sua coscienza disincarnata in un’allucinazione consensuale: la matrice”[2].

Così Gibson presenta l’eroe di un’avventura che non è più una guerra fra i mondi ma che si svolge nel cyberspazio, la realtà virtuale che proprio dal romanzo di Gibson deriva la sua ormai popolare denominazione. I cowboy della consolle percorrono la matrice, “reticoli luminosi di logica dispiegati verso quel vuoto incolore…”[3], ma quando si trovano a vagare per le strade della vita reale il cielo ha il colore della televisione sintonizzata su un canale morto. Scenari che devono molto a quelli descritti dalla New wave e da Dick[4] e messi in scena da Ridley Scott in Blade Runner (1982), film ambientato in una Los Angeles futuribile, costantemente lacerata dalla pioggia e dall’inquinamento, soffocata da inquietanti costruzioni specchio di una società decadente e oppressiva.

William Gibson e Bruce Sterling sono gli autori più significativi della letteratura cyberpunk della prima generazione, padri di uno stile nervoso, dettagliato e analitico, che serve a raccontare di nuovi eroi romantici e perdenti, prostitute, punk, truffatori, pirati informatici, balordi che vivono le loro storie fra cyberspazio e tetri territori urbani degli anni a venire; la forza innovativa ed eversiva del cyberpunk sta proprio nell’essere “un filone letterario che recupera organicamente alcune delle tensioni sociali esistenti”[5], dando voce agli “esclusi” della società post-industriale.

Con un articolo apparso nel 1991 sulla rivista inglese Interzone, Bruce Sterling sancisce la fine del cyberpunk come esperienza letteraria: “gli anni novanta non apparterranno al cyberpunk”[6], scrive, invita i colleghi a superare il lavoro già compiuto e prende le distanze dagli imitatori superficiali. Ma i redattori di Decoder non sono d’accordo, durante gli anni novanta molti scrittori hanno prodotto opere originali in grado di non tradire lo spirito originario della corrente cyberpunk: Neal Stephenson con Snow Crash (1992), Richard Calder con Virus Ginoide (1992) e, non da ultima, Pat Cadigan con Mindplayers (1987), l’unica donna ufficialmente considerata una scrittrice cyberpunk.
 


2. Il cyberpunk come movimento politico

“(…) parlando di cyberpunk si fa riferimento a un complesso di idee, a un insieme di figure narrative e retoriche, ad alcuni autori e gruppi, che sembrano dare espressione politica alle utopie e alle paure collegate agli sviluppi tecnologici di questi anni”[7].

Da questa definizione di Michela Nacci emerge come, nel cyberpunk, fiction ed azione politica si compenetrino e si alimentino reciprocamente. I romanzi di Gibson, i giochi di ruolo praticabili per via telematica, certi videogiochi concorrono all’edificazione di immaginari secondo i quali il problema della tecnica assume un ruolo di primo piano.

Non si può parlare di cyberpunk come di un movimento organizzato e ben definito. Esso non è dotato di un sistema ideologico organizzato ma è piuttosto un insieme di stili e atteggiamenti che danno vita ad un immaginario composito, è il prodotto di voci che agiscono e dibattono del problema della tecnica e del suo rapporto con la politica nell’epoca contemporanea.

Un’altra peculiarità del cyberpunk sta nella sua trasversalità, esso procede e si sviluppa mediante processi di contaminazione, travalica i confini istituzionali fra discipline differenti, fra teoria e pratica, fra la dimensione politica e quella letteraria, fra cultura “alta” e cultura “popolare”[8].

Le reti telematiche, considerate nei loro aspetti tecnici e nel loro essere spazio sociale conflittuale, sono al centro della riflessione e dell’azione politica cyberpunk. La tecnica diventa il terreno cruciale su cui si gioca la partita per la libertà e l’oppressione, in cui si risolve il senso della politica odierna.

 
“La rappresentazione della tecnica come strumento di liberazione e quella della tecnica come minaccia alla sopravvivenza stessa dell’umanità appaiono in questo quadro non due opzioni ideologiche alternative ma due possibili esiti della partita in atto”[9].

 

La tecnica è considerata un elemento ambivalente, né buono né cattivo in sé, oggetto di pessimismo ed ottimismo e, ancora, lo strumento il territorio e l’obiettivo della battaglia in atto.

Fra i temi ricorrenti del cyberpunk Nacci individua la “preoccupazione per un possibile intervento repressivo mirante a chiudere gli spazi liberati”[10], ovvero le comunità virtuali, reti di comunicazione on-line a basso costo, e l’attenzione al tema giuridico del copy right, con particolare resistenza contro l’applicazione dei diritti d’autore ai software, considerata una limitazione alla libera circolazione dell’informazione. Attualmente questi sono temi salienti anche per giuristi e teorici dei media, ma considerevole è il ruolo che il cyberpunk delle origini ha avuto nell’introdurli nell’agenda degli organi istituzionali. L’hacking sociale è la pratica politica di rottura adottata in questa prima fase. Esso si fonda sui Principi dell’etica hacker stabiliti dagli hacker del MIT nel 1961 e dai quali è già evidente lo spirito del movimento:

“L’accesso ai computer – e a tutto ciò che potrebbe insegnare qualcosa su come funziona il mondo – deve essere assolutamente illimitato e completo. (…)

Un libero scambio di informazioni, soprattutto quando l’informazione ha l’aspetto di un programma per computer, promuove una maggiore creatività complessiva. (…)

L’ultima cosa di cui c’è bisogno è la burocrazia. Questa, che sia industriale, governativa o universitaria è un sistema imperfetto (…).

Gli hacker dovranno essere giudicati per il loro operato, e non sulla base di falsi criteri quali ceto, età, razza o posizione sociale.(…)”[11].

Mentre oggi alcuni settori della comunità informatica internazionale, come spiega Nacci nel suo saggio, interagiscono con le istituzioni cercando alternative alla giurisdizione ufficiale anche in termini di regole (basti pensare all’introduzione dello shareware[12]), i primi gruppi di hacker teorizzavano la rottura delle regole, l’illegalità giustificata, secondo loro, dall’importanza della posta in gioco. Sterling sosteneva che limitare alla comunità dei programmatori l’accesso a un software mediante il copy right fosse come sottrarre a un popolo un linguaggio per poi affittarglielo in un secondo tempo.


3. Cyberpunk, postmoderno e femminismo cibernetico

Il cyberpunk è un fenomeno che nasce e si sviluppa nella fase del tardo capitalismo occidentale e, di conseguenza, in un contesto segnato da dominanti culturali di matrice postmoderna.

Al postmoderno lo accomuna la tendenza alla contaminazione degli stili, delle discipline, dei livelli gerarchici delle componenti culturali, l’elevare l’effimero ad oggetto d’analisi per la riflessione sull’epoca contemporanea. La pratica della contaminazione, sia per il cyberpunk che per il postmoderno, rende inoltre evidente la negazione di un soggetto unitario e dell’universalismo. Come ha ben sintetizzato Michela Nacci:

“Come il postmoderno, il cyberpunk non crede a una serie di valori attribuiti al moderno: progresso, civiltà, Occidente, ragione, dominio. Come il postmoderno, non crede soprattutto al soggetto e alla possibilità di discorsi generali”[13].

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come questi temi siano anche cardini del discorso cyberfemminista e femminista postmoderno. Il cyberfemminismo, inoltre, condivide con il cyberpunk la particolare attenzione alla questione della tecnica e il modo di considerarla elemento ambivalente e non innocente. E ancora, il largo uso che entrambi fanno della metafora della rete, sia per significare una comunicazione aperta, non oppressiva, in grado di produrre forme di democrazia telematica, sia per designare la trama di affinità su cui fondare l’azione politica.

Sebbene alcune studiose femministe abbiano criticato certa science fiction per aver tracciato ruoli femminili per certi versi tradizionali, è innegabile il contributo prezioso del cyberpunk al cyberfemminismo in termini di scenari, figure e linguaggio. Il cyborg[14], ad esempio, nato dalla fantascienza e dalla letteratura cyberpunk, è senz’altro una delle più celebri cartografie del soggetto decostruito, scelta da Donna Haraway per descriverne la non-unitarietà, il crollo delle opposizioni e il confondersi dei confini fra uomo e macchina, natura e cultura, maschio e femmina.


NOTE

[1] K. MacLeod, La fantascienza con il futuro che è già arrivato, in Aa.Vv. Millepiani Numero 14, a cura di J. Baudrillard, Cyberfilosofie. Fantascienza, antropologia e nuove tecnologie, Mimesis, Milano, 1998, pp. 39-42.
[2] W. Gibson, Neuromancer, 1984, trad. it. di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Neuromante, Editrice Nord, Milano, 1999, p. 5.
[3] Ibidem, p. 4.
[4] Philiph K. Dick è l’autore di Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), da cui Scott ha liberamente tratto Blade Runner, nel 1982.
[5] Alla ricerca del cyberpunk, articolo parte di un’ipertesto interamente dedicato alla cultura e alla letteratura cyberpunk presente in Decoder. E-rivista internazionale underground, http://www.decoder.it/, l’articolo in questione è reperibile all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/index.htm.
[6] Il cyberpunk è morto, in Decoder. E-rivista…, all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/letterat/secondag.htm
[7] M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Editori Laterza, Roma, 2000, p. 260.
[8] Nel paragrafo precedente abbiamo fatto riferimento alla letteratura cyberpunk e ad alcuni dei romanzieri più conosciuti., ma la cultura cyberpunk è costituita da prodotti eterogenei: riviste, videogiochi, musica, informazione, saggistica, iniziative editoriali. In Italia tra i progetti più significativi annoveriamo la rivista Decoder e la sua versione on-line, le edizioni Shake e la collana Interzone dell’editore Feltrinelli.
[9] M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 273.
[10] Ibidem, p. 270.
[11] L’hacking sociale, articolo parte del già citato ipertesto dedicato al cyberpunk presente in Decoder. E-rivista…, http://www.decoder.it/, l’articolo in questione è reperibile all’indirizzo Internet http://www.decoder.it/archivio/cybcult/politico/hacksoc.htm.
[12] “(…) un sistema di circolazione del software che separa il momento dell’acquisizione di prodotti da quello dell’erogazione di denaro, in quanto prevede l’uso gratuito ma anche il successivo versamento volontario (…) di una certa somma agli autori di prodotti soddisfacenti”. M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 271. I programmi shareware sono spesso programmi a tempo determinato, ovvero cessano di funzionare dopo un circa un mese dal momento dell’istallazione, a meno che non vengano integrati con un apposito programma che si riceve previo pagamento. Alcuni gruppi di hacker gestiscono siti in cui mettono a disposizione i così detti “crack”, programmi illegali che servono ad utilizzare i software shareware a tempo indeterminato. Questa pratica, molto diffusa, è adottata in particolare per colpire i grandi oligopolisti quali Microsoft, Adobe e Macromedia che hanno imposto standard che neutralizzano il potenziale innovativo dei lavori di programmatori autonomi.
[13] M. Nacci, Pensare la tecnica…, cit., p. 278.
[14] Il termine cyborg sta per organismo cibernetico, ibrido della macchina con un corpo organico.

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