USI DELL’EROTICO-L’EROTICO COME POTERE di Audre Lorde

Usi dell’erotico – L’erotico come potere > Uses of the Erotic – The Erotic As Power
Traduzione di Rosanna Fiocchetto
Ci sono molti generi di potere, usato e non usato, riconosciuto o meno. Quello erotico è una risorsa dentro ciascuna di noi che giace su un piano profondamente femminile e spirituale, fermamente radicata nel nostro potere di sentire, non espresso o non riconosciuto. Per perpetuare se stessa, ogni oppressione deve corrompere o distorcere nella cultura degli oppressi le varie fonti di potere che possono fornire energia per un cambiamento. Per le donne, ciò ha significato la soppressione dell’erotico in quanto fonte di potere e di informazione nelle nostre vite.
Ci è stato insegnato a diffidare di questa risorsa, svilita, abusata e svalutata nella società occidentale. Da un lato si è incoraggiato il superficialmente erotico come segno di inferiorità femminile; dall’altro le donne sono state indotte a sopportare e a sentirsi sia disprezzabili che sospette, proprio a causa dell’esistenza di questa risorsa.
Da qui alla falsa opinione che solo mediante la soppressione dell’erotico nelle nostre vite e nella nostra coscienza le donne possono essere veramente forti, il passo è breve. Ma quella forza è illusoria, perché è formata nel contesto dei modelli maschili di potere.
Come donne, siamo state indotte a diffidare di quel potere che sorge dalla nostra conoscenza più profonda e non-razionale. Durante tutta la nostra vita siamo state messe in guardia contro di esso dal mondo maschile, che percepisce l’importanza di questa profonda capacità di sentire tanto da tenersi intorno le donne perchè la esercitino al servizio degli uomini; ma che ha troppa paura di essa per esaminarne le possibilità. Così le donne vengono mantenute in una posizione distante/inferiore per poterle mungere psichicamente, nello stesso modo in cui le formiche mantengono colonie di afidi che forniscono una sostanza vitale alle loro padrone.
Ma l’erotico offre una fonte di abbondante e provocatoria forza alla donna che non teme la sua rivelazione, e che non cede alla credenza che sia sufficiente la sensazione.
L’erotico è stato spesso nominato in modo sbagliato dagli uomini e usato contro le donne. E’ stato trasformato nella confusa, triviale, psicotica, plasticizzata sensazione. Per questo motivo, noi abbiamo spesso rifiutato l’esplorazione e la considerazione dell’erotico come fonte di potere e di informazione, confondendolo con il suo opposto, con il pornografico. Ma la pornografia è una diretta negazione del potere dell’erotico, perché rappresenta la soppressione della nostra vera capacità di sentire. La pornografia enfatizza la sensazione senza sentimento.
L’erotico è una misura tra l’inizio del nostro senso di sé e il caos dei nostri sentimenti più forti. E’ un senso interiore di soddisfazione al quale, una volta che l’abbiamo sperimentato, sappiamo di poter aspirare. E una volta che abbiamo sperimentato la pienezza di questa profondità di sentire, riconoscendo la sua forza, per onore e rispetto di noi stesse non possiamo pretendere niente di meno per noi.
Non è mai facile pretendere il meglio da noi stesse, dalle nostre vite, dal nostro lavoro. Andare oltre la caldeggiata mediocrità della nostra società significa incoraggiare l’eccellenza. Ma cedere alla paura di sentire e lavorare solo per produrre, è un lusso che può permettersi solo chi vive senza propositi, cioè chi non vuole prendere in mano il proprio destino.
Questa richiesta interiore di eccellenza che impariamo dall’erotico non deve significare pretendere l’impossibile da noi stesse e dalle altre. Una simile pretesa ci renderebbe tutte incapaci. Poiché l’erotico non è solo questione di che cosa facciamo, ma anche di quanto siamo in grado di sentire intensamente e pienamente nel farlo. Se sappiamo quanto siamo capaci di percepire quel senso di soddisfazione e completamento, saremo poi in grado di capire quali dei nostri vari sforzi vitali ci portano più vicine a quella pienezza.
Lo scopo di ogni cosa che facciamo è di rendere le nostre vite e le vite dei nostri figli più possibili e ricche. Con la celebrazione dell’erotico in tutti i miei tentativi, la mia attività diventa una consapevole decisione – un letto a lungo desiderato dove entro con soddisfazione e dal quale mi alzo potenziata.
Naturalmente, le donne così potenziate sono pericolose. Perciò ci viene insegnato a separare la richiesta erotica dalle aree più vitali delle nostre esistenze, tranne che dal sesso. E la mancanza di interesse per la radice erotica e per le soddisfazioni del nostro lavoro è avvertibile nella disaffezione rispetto a tanta parte di quello che facciamo. Per esempio, quanto spesso amiamo veramente il nostro lavoro pur nella sua difficoltà?
Il principale orrore di ogni sistema che definisce il bene in termini di profitto piuttosto che in termini di bisogno umano, o che definisce il bisogno umano escludendo le sue componenti psichiche ed emotive, è che esso deruba il nostro lavoro del suo valore erotico, del suo potere erotico, della sua attrazione vitale e del suo appagamento. Un sistema del genere riduce il lavoro ad una parodia della necessità, ad un dovere con il quale guadagniamo il pane arrivando ad annullare noi stesse e le persone che amiamo. Ma ciò equivale ad accecare una pittrice e poi a chiederle di migliorare il suo lavoro e a trarre piacere dall’atto di dipingere. Non solo questo è pressoché impossibile, ma è anche profondamente crudele.
Come donne, abbiamo bisogno di esaminare in quali maniere il nostro mondo può essere veramente diverso. Sto parlando della necessità di rivalutare la qualità di tutti gli aspetti delle nostre vite e del nostro lavoro, e di come ci muoviamo verso di essi e attraverso di essi.
La stessa parola erotico viene dalla parola greca eros, la personificazione dell’amore in tutti i suoi aspetti. Eros è nato dal Caos, e personifica il potere creativo e l’armonia. Quando parlo dell’erotico, dunque, ne parlo come di un’asserzione della forza vitale delle donne; di quella potenziata energia creativa, la cui conoscenza e il cui uso stiamo ora rivendicando nel nostro linguaggio, nella nostra storia, nella nostra danza, nel nostro amore, nel nostro lavoro, nelle nostre vite.
Ci sono frequenti tentativi di equiparare pornografia ed erotismo, due usi del sessuale diametralmente opposti. In seguito a questi tentativi, è diventato di moda separare lo spirituale (psichico ed emotivo) dal politico, vederli come contraddittori o antitetici. "Cosa vuoi dire, una rivoluzionaria poetica, una contrabbandiera d’armi che medita?". Nello stesso modo, abbiamo tentato di separare lo spirituale e l’erotico, riducendo così lo spirituale ad un mondo di piatta affettazione, un mondo dell’ascetico che aspira a non sentire nulla. Ma niente è più lontano dalla verità, perché la posizione ascetica è quella della massima paura, la più grave immobilità. La severa astinenza dell’ascetico diventa l’ossessione dominante. Ed è quella non di un’auto-disciplina, ma di un’auto-abnegazione.
La dicotomia tra lo spirituale e il politico è anch’essa falsa, risultato di una incompleta attenzione alla nostra consapevolezza erotica. Perché il ponte che li connette è formato dall’erotico, dal sensuale, dalle espressioni fisiche, emotive e psichiche di ciò che è più forte, profondo e ricco entro ciascuna di noi, e che è condiviso: le passioni d’amore, nei suoi più profondi significati.
Al di là della sua espressione superficiale, se riflettete sulla frase "lo sento giusto", essa riconosce la forza dell’erotico come una vera consapevolezza; significa che ciò che si sente è la prima e più potente luce-guida verso ogni comprensione. E la comprensione è un’ancella che può solo servire, o chiarificare, quella consapevolezza profondamente nata. L’erotico è la nutrice di tutta la nostra più profonda coscienza.
L’erotico agisce per me in molti modi, ed il primo è fornire il potere che deriva dal condividere profondamente qualsiasi occupazione con un’altra persona. Condividere la gioia, sia fisica che emotiva, psichica o intellettuale, crea un ponte tra coloro che la condividono, che può essere la base per comprendere di più quello che non è condiviso tra loro, e riduce la minaccia della loro differenza.
Un altro modo importante in cui la relazione erotica agisce è la sottolineatura aperta e senza paura della mia capacità di gioia. Come il mio corpo si distende con la musica e si apre in risposta ad essa, ascoltando i suoi ritmi più profondi, così ad ogni livello del sentire mi apro all’esperienza eroticamente soddisfacente, sia essa danzare, costruire uno scaffale, scrivere una poesia, esaminare un’idea.
Quando questa relazione con me stessa è condivisa, è una misura della gioia che so di poter sentire, un promemoria della mia capacità di sentire. E quella profonda e insostituibile conoscenza della mia capacità di gioia mi porta ad esigere che tutta la mia vita venga vissuta nella consapevolezza che questa soddisfazione è possibile, e non deve essere chiamata matrimonio, nè dio, nè un’altra vita.
Questa è una delle ragioni per cui l’erotico è così temuto, e così spesso relegato soltanto nella camera da letto, oppure non viene addirittura riconosciuto. Perché una volta che cominciamo a sentire profondamente tutti gli aspetti delle nostre vite, cominciamo ad esigere di sentirci, e che le nostre occupazioni vitali ci facciano sentire, in sintonia con quella gioia di cui sappiamo essere capaci. La nostra consapevolezza erotica ci potenzia e diventa una lente attraverso la quale scrutiamo tutti gli aspetti della nostra esistenza; e ci obbliga a valutare questi aspetti onestamente, nei termini del loro relativo significato nelle nostre vite. E questa è una seria responsabilità, proiettata dall’interno di ciascuna di noi, che non ci permette di accontentarci di ciò che è conveniente, scadente, di accettare l’aspettativa convenzionale, la semplice sicurezza.
Durante la seconda guerra mondiale, compravamo pacchetti sigillati di bianca e incolore margarina, con una minuscola pillola colorata di giallo intenso collocata come un topazio proprio dentro l’involucro chiaro del pacchetto. Dovevamo lasciare la margarina fuori per un po’ ad ammorbidire, e poi dovevamo sbriciolare la pillola nel pacchetto, distribuendo il ricco colore giallo dentro la massa soffice e pallida della margarina. Poi, prendendola attentamente tra le dita, dovevamo impastarla dolcemente avanti e indietro, ancora e ancora, finché il colore non si fosse amalgamato in tutta la libbra di margarina, lasciandola completamente colorata.
Considero l’erotico come un simile nucleo in me stessa. Quando viene liberato dalla sua costrittiva pillola, fluisce e colora intensamente la mia vita con una energia che innalza, sensibilizza e rafforza tutta la mia esperienza.
Siamo state allevate ad aver paura dei "sì" dentro noi stesse, delle nostre voglie più profonde. Ma, una volta che le abbiamo riconosciute, quelle che non danno intensità al nostro futuro perdono il loro potere e possono essere modificate. La paura dei nostri desideri li rende sospetti e indiscriminatamente potenti, perché sopprimere ogni verità significa rafforzarla oltre il sopportabile. La paura di non poter superare qualunque distorsione scopriamo dentro di noi ci rende docili e fedeli e obbedienti, definite dalle circostanze esterne, e ci porta ad accettare molti aspetti della nostra oppressione come donne.
Se viviamo al di fuori di noi stesse, e con questo intendo il vivere solo secondo direttive esterne, e non secondo la nostra consapevolezza interiore e i nostri bisogni; se viviamo distanti dalle guide erotiche dentro di noi, le nostre vite sono limitate da forme esterne ed estranee, e ci conformiamo ai bisogni di una struttura che non è basata sui bisogni umani, per non parlare di quelli individuali. Ma se cominciamo a vivere da dentro a fuori, in contatto con il potere dell’erotico in noi stesse, permettendo a questo potere di ispirare e di illuminare le nostre azioni nel mondo intorno a noi, allora cominciamo ad essere responsabili di noi stesse nel senso più profondo. Perché, man mano che cominciamo a riconoscere i nostri più profondi sentimenti, smettiamo necessariamente di essere appagate dalla sofferenza e dall’autonegazione, e dal torpore che così spesso sembra essere la loro sola alternativa nella nostra società. I nostri atti contro l’oppressione diventano integrati con noi stesse, motivati e potenziati dall’interno.
In contatto con l’erotico, io divento meno incline ad accettare la mancanza di potere, o gli altri stati sostitutivi dell’essere che non mi sono connaturati, come la rassegnazione, la disperazione, l’auto-cancellazione, la depressione, l’odio di sé.
Sì, c’è una gerarchia. C’è una differenza tra dipingere di nero uno steccato e scrivere una poesia, ma solo una differenza di quantità. Per me non c’è alcuna differenza tra scrivere una buona poesia e muovermi nella luce del sole accanto al corpo di una donna che amo.
Questo mi porta all’ultima considerazione sull’erotico. Condividere il potere dei reciproci sentimenti è diverso dall’usare i sentimenti di un’altra come potremmo usare un kleenex. Se prescindiamo dalla nostra esperienza, erotica o altro, invece di condividere usiamo la capacità di sentire delle altre che partecipano all’esperienza con noi. E usare senza il consenso di chi viene usata è un abuso.
Per essere utilizzati, i nostri sentimenti erotici vanno riconosciuti. Il bisogno di condividere un sentimento profondo è un bisogno umano. Ma, nella tradizione europea ed americana, questo bisogno viene soddisfatto da determinati incontri erotici già prescritti. Queste occasioni sono quasi sempre caratterizzate da una simultanea volontà di non vederle nella loro realtà, dalla finzione di chiamarle in un altro modo, o una religione, un parossismo, violenza di massa, o persino giocare al dottore. E questo nominare in modo falso sia il bisogno che l’azione dà origine a quella distorsione che sfocia nella pornografia e nell’oscenità – nell’abuso della nostra capacità di sentire.
Se prescindiamo dall’importanza dell’erotico nello sviluppo e nel sostentamento del nostro potere, o se prescindiamo da noi stesse quando soddisfiamo i nostri bisogni erotici insieme ad altre, ci usiamo l’un l’altra come oggetti di soddisfazione, invece di condividere la nostra gioia nel soddisfare, invece di mettere in relazione le nostre similarità e le nostre differenze. Rifiutare di essere consapevoli di ciò che sentiamo in ogni momento, per quanto comodo possa sembrare, vuol dire rinnegare una larga parte dell’esperienza, e permettere che ci riduciamo al pornografico, all’abusato, e all’assurdo.
L’erotico non può essere sentito di seconda mano. Come femminista lesbica Nera, io ho una mia specifica capacità di sentire, una specifica coscienza e comprensione per le sorelle con cui ho danzato in modo sfrenato, giocato, o anche lottato. Questa profonda partecipazone è stata spesso la premessa per azioni comuni che prima non erano state possibili.
Ma questa carica erotica non viene condivisa facilmente dalle donne che continuano ad operare entro una tradizione esclusivamente europea-americana maschile. So che non è stata disponibile per me quando cercavo di adattare la mia coscienza a quel modo di vivere e di sentire.
Solo adesso trovo sempre più donne che si identificano con le donne, abbastanza coraggiose da rischiare di condividere la carica elettrica dell’erotico senza doverne prescindere e senza distorcere la natura enormemente potente e creativa di questo scambio. Riconoscere il potere dell’erotico nelle nostre vite può darci l’energia di perseguire un’autentica trasformazione nel nostro mondo, invece di accontentarci di un mero cambio di personaggi nello stesso stantìo dramma.
Così, non solo tocchiamo la nostra più profonda fonte creativa, ma facciamo ciò che è femminile e auto-affermativo di fronte ad una società razzista, patriarcale, ed anti-erotica.
"Uses of the Erotic – The Erotic As Power" è stato letto da Audre Lorde al quarto convegno sulla Storia delle Donne tenuto al Mount Holyoke College il 25 agosto 1978; è stato pubblicato in opuscolo da Out & Out Books e poi incluso nella raccolta "Sister Outsider – Essays & Speeches by Audre Lorde", edita da The Crossing Press, Trumansburg e New York 1984, pp. 53-59. Questa traduzione italiana, di Rosanna Fiocchetto e Julienne Travers, è stata pubblicata nella "Bollettina del CLI" nel giugno 1986, e poi ristampata in opuscolo dal CLI (Collegamento tra Lesbiche Italiane), Roma

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DONNA NON SI NASCE_ di Monique Wittig

MONIQUE WITTIG

ON NE NAÎT PAS FEMME
ONE IS NOT BORN A WOMAN
DONNA NON SI NASCE

Quando si analizza l’oppressione delle donne con un approccio femminista e materialista1, si scardina l’idea che le donne sono un gruppo naturale, cioè “un gruppo sociale di un tipo particolare, un gruppo percepito come naturale, un gruppo di uomini considerati come materialmente specifici nei loro corpi”2. Ciò che le analisi compiono nell’ordine delle idee, la pratica rende effettivo nell’ordine dei fatti: proprio nel suo esistere la società lesbica3 distrugge la costruzione artificiale (sociale) che considera le donne come un “gruppo naturale”; la società lesbica dimostra praticamente che la divisione dagli uomini, di cui le donne sono state oggetto, è una divisione politica e dimostra che noi siamo state ideologicamente ricostruite come un “gruppo naturale”. Nel caso delle donne l’ideologia arriva fino a fare dei nostri corpi così come dei nostri pensieri un prodotto di questa manipolazione. Noi siamo state costrette nei nostri corpi e nei nostri pensieri a corrispondere, tratto per tratto, con l’idea di natura che è stata stabilita per noi. Contraffatte fino al punto che il nostro corpo deforme è ciò che loro chiamano “naturale”, così come si suppone che fosse prima dell’oppressione. Contraffatte fino al punto che alla fine l’oppressione sembra essere una conseguenza in noi stesse di questa “natura”, una natura che è solo un’idea. Ciò che un’analisi materialista compie attraverso il ragionamento, la società lesbica effettua praticamente: non solo non esiste nessun gruppo naturale “donne” (noi lesbiche ne siamo una prova vivente, fisica), ma come individui noi rimettiamo in questione la “donna”, che per noi non è che un mito, come per Simone de Beauvoir trenta anni fa. “Non si nasce donna, lo si diventa. Nessun destino biologico, psicologico, economico definisce la figura che la femmina umana riveste all’interno della società; è la civiltà nel suo complesso che elabora questo prodotto, intermedio tra l’uomo e l’eunuco, che è descritto come femminile”4.

Comunque, la maggior parte delle femministe e lesbo/femministe qui e altrove continua a pensare che la base dell’oppressione delle donne è biologica, così come storica. Alcune tra loro pretendono anche di trovare la loro fonte in Simone de Beauvoir5. Il credere nel diritto materno e in una “preistoria” in cui le donne hanno creato la civiltà (a causa di una predisposizione biologica) mentre gli uomini brutali e rozzi si sono accontentati di andare a caccia (a causa di una predisposizione biologica) è simmetrico all’interpretazione biologizzante della storia prodotta fino a questo momento dalla classe degli uomini. È sempre lo stesso metodo che consiste nel cercare nelle donne e negli uomini una ragione biologica per spiegare la loro divisione, al di fuori dei fatti sociali. Di fatto questo modo di vedere presuppone che il principio o la base della società umana riposano nell’eterosessualità, per me questo non potrà mai essere un approccio di un’analisi lesbo/femminista all’oppressione delle donne. Il matriarcato non è meno eterosessuale del patriarcato: cambia solo il sesso dell’oppressore. Tale concezione, oltre a restare prigioniera nelle categorie sessuali (donna e uomo), mantiene anche l’idea che ciò che definisce la donna è la sua capacità di mettere al mondo figli (biologia). Anche se nella società lesbica la pratica e i modi di vivere contraddicono questa teoria, ci sono lesbiche che affermano che “le donne e gli uomini appartengono a specie, o razze (i termini sono usati in modo intercambiabile) differenti; che gli uomini sono inferiori alle donne sul piano biologico; che la violenza maschile è un fenomeno biologico inevitabile”6… Nel fare ciò,  nell’ammettere che esiste una divisione “naturale” tra donne e uomini, noi naturalizziamo la storia, diamo per assunto che uomini e donne sono sempre esistiti e sempre esisteranno. E non solo naturalizziamo la storia, ma di conseguenza naturalizziamo anche i fenomeni sociali che manifestano la nostra oppressione, rendendo impossibile ogni cambiamento. Invece di considerare, per esempio, il mettere al mondo figli come una produzione forzata, noi lo vediamo come un processo “naturale”, “biologico”, dimenticando che nella società le nascite sono pianificate (demografia), dimenticando che noi stesse siamo programmate per produrre figli, mentre questa è l’unica attività sociale “a parte la guerra” che presenta un grande pericolo di morte7. Così, finché noi saremo “incapaci di sfuggire volontariamente o spontaneamente l’obbligo secolare della procreazione a cui le donne si votano a vita come l’atto creativo femminile”8, il controllo della produzione di figli significherà molto di più del semplice controllo dei mezzi materiali di questa produzione. Per arrivare a ciò le donne dovranno prima di tutto astrarre loro stesse dalla definizione di “donna” che è loro imposta.

Un’analisi femminista materialista mostra che quello che noi consideriamo come la causa o come l’origine dell’oppressione di fatto non è che il “marchio”9 che l’oppressore ha imposto sulle oppresse: il “mito della donna”10, che ci riguarda, sommato ai suoi effetti e alle sue manifestazioni materiali nell’appropriazione delle coscienze e dei corpi delle donne. Il marchio non preesiste all’oppressione: Colette Guillaumin ha mostrato come il concetto di razza non esisteva prima della realtà socio-economica della schiavitù, almeno non nella sua accezione moderna, finché non è stato applicato ai lignaggi familiari (a quel tempo, se si era, non si poteva che essere di/della “buona razza”). Comunque, oggi razza e sesso sono considerati come un dato immediato, un dato sensibile, un insieme di “caratteristiche fisiche”. Ci appaiono tutte costruite come se esistessero prima di ogni ragionamento, appartenenti ad un odine naturale. Ma ciò che noi crediamo essere una percezione diretta e fisica, non è che una costruzione mitizzante e sofisticata, una “formazione immaginaria”11 che reinterpreta le caratteristiche fisiche (in sé indifferenti ma marchiate dal sistema sociale) attraverso la rete di relazioni in cui sono percepite. (Sono viste/i come nere/i, di conseguenza sono nere/i; sono viste come donne, di conseguenza sono donne. Ma prima di essere viste/i in questo modo, bisogna che esse/i siano fatte/i nere/i, donne). Avere una coscienza lesbica significa non dimenticare mai quanto essere “donne” sia stato per noi “contro natura”, limitante, totalmente oppressivo e distruttivo nei bei vecchi tempi prima del movimento di liberazione delle donne. E’ stata una forzatura politica e quelle che hanno resistito sono state accusate di non essere “vere” donne. Ma successivamente siamo divenute orgogliose di questo, dato che nell’accusa c’era già come un’ombra di vittoria: la dichiarazione da parte dell’oppressore che essere “donna” non è qualcosa che va sa sé, e perché ce ne sia una, bisogna che una sia “vera” (e allora le altre?). Nello stesso movimento ci si accusa di voler essere degli uomini. Oggi questa doppia è stata ripresa all’interno del movimento di liberazione delle donne da alcune femministe e anche, ahimè, da alcune lesbiche che si sono date come obiettivo politico di diventare sempre più “femminili”. Tuttavia rifiutare di essere donna, non significa che si deve diventare un uomo. Inoltre, se si prende come esempio la perfetta “butch”, il classico esempio che spesso provoca orrore, quella che Proust avrebbe definito donna/uomo, in cosa la sua alienazione è differente dall’alienazione di chi vuole diventare una donna? E’ assolutamente identica*. Almeno per una donna, voler diventare un uomo prova che è fuggita dalla sua iniziale programmazione. Ma anche se volesse con tutte le sue forze, non potrebbe diventare un uomo. Per diventare un uomo sarebbe richiesto ad una donna non solo l’apparenza esteriore di un uomo, ma anche la sua coscienza, cioè la coscienza di chi dispone di diritto di almeno due schiave “naturali” durante l’arco della sua vita. Questo è impossibile e uno degli aspetti dell’oppressione subita dalle lesbiche consiste precisamente nel fare in modo che le donne siano per noi irraggiungibili, dato che le donne appartengono agli uomini. Quindi una lesbica deve essere qualche altra cosa, una non-donna, una non-uomo, un prodotto della società e non un prodotto della “natura”, perché non esiste la “natura” all’interno della società.

Rifiutare di diventare (o di rimanere) eterosessuale ha sempre significato rifiutare, coscientemente o non, di voler diventare un uomo o una donna. [Per una lesbica questo va oltre al fatto di rifiutare il ruolo di “donna”. E’ il rifiuto del potere economico, ideologico e politico degli uomini**.] Questo la maggior parte delle lesbiche e anche di quelle che non lo sono, lo sanno da prima dell’inizio del movimento lesbico e femminista. Tuttavia come Andrea Dworking sottolinea, molte lesbiche recentemente “hanno provato in modo crescente a trasformare l’ideologia che ci ha asservite in una celebrazione dinamica, religiosa, psicologicamente limitante del potenziale biologico femminile”12. Così alcuni percorsi del movimento lesbico e femminista ci riportano indietro al mito della donna che è stato creato a posta per noi dalla classe che ci domina, grazie alla quale noi ricadiamo in un gruppo naturale. Trent’anni fa Simone de Beauvoir ha distrutto il mito della donna. Dieci anni fa noi abbiamo iniziato a lottare per una società senza sessi13. Oggi ci ritroviamo intrappolate nel punto morto a noi familiare di “donna è bello”. Trent’anni fa Simone de Beauvoir ha messo chiaramente in evidenza la falsa coscienza che consiste nello scegliere tra gli aspetti del mito (che le donne sono differenti… dagli uomini) quelli che sembrano buoni e usarli per definire per le donne. Ciò che il concetto “donna è bello” compie è che esso, per definire le donne, conserva le migliori caratteristiche che l’oppressione ci ha concesso (ancorché…), e non deve rimettere radicalmente in questione le categorie di “uomo” e “donna”, che sono categorie politiche (e non dati naturali). Questo ci mette nella situazione di lottare all’interno della classe “donne”, non come fanno le altre classi, per la scomparsa della nostra classe, ma per la difesa della “donna” e per il suo rafforzamento. Questo ci porta a sviluppare con compiacimento “nuove” teorie sulla nostra specificità, così che noi chiamiamo la nostra passività “non violenza”, laddove il nostro obiettivo politico principale dovrebbe essere combattere la nostra passività (la nostra paura che nei fatti è giustificata). L’ambiguità del termine “femminista” riassume l’intera situazione. Che significa “femminista”? Femminista è formato dalla parola “femme/donna” e significa “colei che lotta per le donne”. Per molte di noi significa “colei che lotta per le donne in quanto classe e per la scomparsa di questa classe”. Per molte altre significa “colei che lotta per la donna e la sua difesa”, dunque per il mito e per il suo rafforzamento.

Ma perché è stata scelta la parola “femminista” se vi rimane la minima ambiguità? Noi abbiamo scelto di chiamarci “femministe”, dieci anni fa, non per difendere il mito della donna, o per rafforzarlo, né per identificarci con la definizione che l’oppressore dà di noi, ma per affermare che il nostro movimento ha una storia e per sottolineare il legame politico con il vecchio movimento femminista.

E’ allora questo movimento che si deve mettere in discussione per il significato che ha dato alla parola “femminismo”. Il femminismo nell’ultimo secolo non ha mai potuto risolvere le sue contraddizioni concernenti le tematiche di natura/cultura, donna/società. Le donne hanno cominciato a lottare per se stesse in quanto gruppo e hanno giustamente considerato che tutte le donne avevano in comune caratteristiche dell’oppressione. Ma per loro si trattava di caratteristiche biologiche, piuttosto che di tratti sociali. Sono arrivate fino ad adottare la teoria dell’evoluzione di Darwin. Comunque non pensavano come Darwin che “le donne sono meno evolute degli uomini”, ma pensavano che la natura degli uomini e la natura delle donne sono divenute divergenti nel corso dello sviluppo evolutivo e che la società nel suo insieme riflette questa dicotomia… Il fallimento del primo femminismo viene dal fatto che ha attaccato solo l’idea di Darwin dell’inferiorità delle donne mentre ha accettato le fondamenta di questa affermazione – in particolare l’idea della donna come “unica”14. Alla fine sono state le universitarie e non le femministe che hanno distrutto questa teoria. Le prime femministe non sono riuscite a considerare la storia come un processo dinamico che si sviluppa a partire da conflitti di interessi. In più, continuavano a pensare come gli uomini che la causa (l’origine) della loro oppressione si trovasse in loro stesse (tra i Neri solo lo zio Tom era attaccato a quest’idea). E le femministe di questo primo fronte dopo qualche vittoria eclatante si sono trovate in un’impasse per la mancanza di ragioni per continuare a lottare. Hanno sostenuto il principio illogico “dell’uguaglianza nella differenza”, un’idea che in questo momento sta nuovamente nascendo. Esse sono ricadute nella trappola che ancora una volta ci minaccia: il mito della donna.

Quindi sta a noi definire storicamente in termini materialistici ciò che chiamiamo oppressione, analizzare le donne in quanto classe, il che vuol dire che la categoria “donna” così  come la categoria “uomo” sono categorie politiche e che di conseguenza non sono eterne. La nostra lotta è volta a sopprimere gli uomini in quanto classe, attraverso una lotta di classe politica – non un genocidio. Quando la classe degli uomini sarà scomparsa, le donne in quanto classe scompariranno a loro volta, perché non ci sono schiavi senza padroni. Il nostro primo compito è, sembra essere, dunque sempre quello di separare minuziosamente “le donne” (la classe all’interno della quale noi lottiamo) e “la donna”, il mito. Perché “la “donna” per noi non esiste, non è altro che una costruzione immaginaria, mentre “le donne” sono il prodotto di una relazione sociale. In più dobbiamo distruggere il mito all’interno e all’esterno di noi stesse. “La donna” non è nessuna di noi ma una costruzione politica e ideologica che nega “le donne” (il prodotto di una relazione di sfruttamento). “Donna” non esiste che per rendere le cose confuse e per dissimulare la realtà delle “donne”. Per diventare una classe, per avere una coscienza di casse, per prima cosa dobbiamo uccidere il mito della “donna”, compresi i suoi aspetti più seduttivi (cfr. Virginia Woolf quando ha detto che il primo dovere di una scrittrice è di uccidere l’angelo del focolare). Ma costituirsi in classe non vuol dire che dobbiamo sopprimerci in quanto individui. E come “non c’è individuo che può essere ridotta alla sua oppressione”, noi ci siamo confrontate anche con la necessità storica di costituirci noi stesse come soggetti individuali della nostra storia. Il che spiega, io credo, perché al giorno d’oggi si moltiplicano tutti questi tentativi di “nuove” definizioni della “donna”. Ciò che è in gioco è una definizione dell’individuo e allo stesso tempo una definizione di classe (e chiaramente non solo per le donne). Perché una volta che si è presa coscienza dell’oppressione, si ha bisogno di sapere e di sperimentare che ci si può costituire come soggetto (in opposizione all’oggetto dell’oppressione), che si può diventare qualcuno a dispetto dell’oppressione, che si può avere un’identità propria. Non c’è possibile lotta per chi è privata/o di identità, né motivazione per lottare, poiché sebbene io posso combattere che con le altre, per prima cosa io lotto per me stessa.

La questione del soggetto e dell’individuo è storicamente una questione difficile per tutte le persone. Il marxismo, l’ultimo prodotto del materialismo, la scienza che ci ha formate/i politicamente non vuole sapere nulla di ciò che tocca al “soggetto”. Il marxismo ha respinto il soggetto trascendentale, la coscienza “pura”, il soggetto come “in sé” costitutivo di conoscenza. Tutto ciò che è pensato “in sé” prima di ogni esperienza è finito nella spazzatura della storia, tutto ciò che pretende di esistere al di fuori della materia, prima della materia, tutto ciò che aveva bisogno di Dio, di un’anima o di uno spirito per esistere. Questo è ciò che è stato chiamato l’idealismo. Gli individui finché non sono che un prodotto di relazioni sociali, non possono che essere alienati dalle loro coscienze (Marx ne L’Ideologia tedesca precisa che gli individui della classe dominante possono essere alienati, sebbene sono i produttori diretti delle idee che alienano le classi che opprimono. Ma finché ricavano vantaggi evidenti dalla loro propria alienazione, possono generarla senza soffrire troppo). Esiste anche una coscienza di classe, ma in quanto coscienza che non si può riferire ad un soggetto particolare, salvo come partecipante a condizioni generali di sfruttamento, tanto quanto altri soggetti di questa classe, che condivideno la stessa coscienza. I problemi pratici di classe – al di fuori dei problemi tradizionalmente definiti come di classe – che si potevano affrontare anche con una coscienza di classe, per esempio i problemi sessuali, erano considerati come problemi “borghesi” che sarebbero scomparsi con la vittoria finale della lotta di classe. “Individualista”, “piccolo borghese”, “soggettivista”, erano le etichette attribuite a tutte le persone che avevano mostrato problemi che non si potevano ridurre ad essere riassunti in quelli della “lotta di classe” propriamente detta.

Quindi il marxismo ha negato a chi era parte delle classi oppresse la qualità di soggetto. Nel fare ciò, il marxismo, a causa del potere politico e ideologico che questa “scienza rivoluzionaria” ha immediatamente esercitato sul movimento dei lavoratori e sugli altri gruppi politici, ha impedito a tutte le categorie di oppresse/i di costituirsi come soggetti (per esempio, soggetti della loro lotta). Questo significa che le “masse” non hanno lottato per loro stesse ma per il partito e la sua organizzazione. E quando è avvenuta una trasformazione economica (fine della proprietà privata, costituzione dello stato socialista), non sono avvenuti cambiamenti rivoluzionari nella nuova società [perché le persone stesse non erano cambiate**].

Per le donne, il marxismo ha avuto due conseguenze: ha impedito loro di pensare e, di conseguenza, di costituirsi come classe per lungo tempo, sottraendo la relazione donne/uomini dall’ordine sociale, facendone una relazione “naturale”, senza dubbio l’unica insieme a quella tra madri e figli, e nascondendo il conflitto di classe tra uomini e donne dietro la divisione naturale del lavoro (vedi L’ideologia tedesca). Questo è quanto concerne il livello teorico (ideologico). Per quanto riguarda il livello pratico, Lenin, il partito, tutti i partiti comunisti fino ad oggi e tutte le organizzazioni comuniste della sinistra [compresi anche i gruppi politici più radicali**] hanno sempre reagito a tutti i tentativi da parte delle donne di riflettere o di formare gruppi a partire dai propri problemi di classe, con l’accusa di divisionismo. Nell’unirci, noi donne, dividiamo la forza del popolo. Questo significa che per i marxisti le donne “appartengono” sia alla borghesia, sia al proletariato, cioè agli uomini di queste classi. Inoltre, la teoria marxista non permette alle donne né ad altre categorie di oppressi di costituirsi come soggetti storici, perché il marxismo non tiene conto del fatto che una classe è anche costituita di individui, uno a uno. La coscienza di classe non è sufficiente. Noi dobbiamo comprendere filosoficamente (politicamente) i concetti di “soggetto” e “coscienza di classe” e come questi funzionano in relazione con la nostra storia. Quando scopriamo che le donne sono oggetto dell’oppressione e dell’appropriazione, nel momento esatto in cui diventiamo capaci di concepire ciò, noi diventiamo soggetti, nel senso di soggetti cognitivi, attraverso un’operazione di astrazione. La coscienza dell’oppressione non è solo una reazione (una lotta) contro l’oppressione. E’ anche la totale rivalutazione concettuale del mondo sociale, la sua totale riorganizzazione concettuale a partire da nuovi concetti sviluppati dal punto di vista dell’oppressione. E’ ciò che chiamerei la scienza dell’oppressione, la scienza creata dalle/dagli oppresse/i. Questa operazione di comprensione della realtà deve essere intrapresa da ognuna di noi: si può chiamare una pratica soggettiva, cognitiva. Questa pratica si compie attraverso il linguaggio, come il movimento avanti e indietro tra due livelli della realtà sociale (la realtà concettuale e la realtà materiale dell’oppressione).

Christine Delphy mostra che siamo noi che dobbiamo storicamente intraprendere il compito di definire ciò che è un soggetto individuale in termini materialisti. A colpo sicuro questo sembra essere impossibile poiché soggettività e materialismo sono sempre stati reciprocamente escludenti. Tuttavia bisogna comprendere l’abbandonarsi da parte di molte tra noi al mito della donna: ciò si spiega con la necessità reale di tutte noi di raggiungere la soggettività (il mito della donna non è che lo specchietto per le allodole che ci svia dal nostro cammino), cioè con la necessità di ogni essere umano di esistere allo stesso tempo come individuo e come parte di una classe. Questa può essere la prima condizione per il compimento della rivoluzione che vogliamo, senza la quale non si può avere nessuna reale lotta o trasformazione. Ma parallelamente senza la classe non vi sono soggetti reali, solo degli individui alienati. Ciò vuol dire che per quanto riguarda le donne, rispondere alla questione del soggetto individuale in termini materialisti significa prima di tutto mostrare, come le lesbiche e le femministe hanno fatto, che i problemi cosiddetti  soggettivi, “individuali”, “privati”, sono in realtà problemi sociali, problemi di classe, che la “sessualità” non è per le donne un’espressione individuale, soggettiva, ma un’istituzione sociale della violenza. Ma una volta che abbiamo mostrato che tutti i problemi cosiddetti personali sono in realtà problemi di classe, ci resta ancora il problema del soggetto di ogni donna, presa singolarmente, non il mito, ma ognuna di noi. A questo punto diciamo che una nuova definizione della persona e del soggetto per tutta l’umanità può essere trovata solo al di fuori delle categorie di sesso (donna e uomo) e che l’avvento dei soggetti individuali esige per prima cosa la distruzione delle categorie di sesso, la fine del loro uso e il rifiuto di tutte le scienze che le utilizzano come loro fondamenti (praticamente tutte le scienze umane [sociali**]).

Ma distruggere “la donna”, salvo distruggerci fisicamente, non vuol dire che miriamo a distruggere il lesbismo (insieme con le categorie di sesso) perché il lesbismo per il momento ci fornisce la sola forma sociale nella quale possiamo vivere libere. Inoltre “lesbica” è il solo concetto che io conosca che è al di là delle categorie di sesso (donna e uomo) perché il soggetto designato (lesbica) non è una donna, né economicamente, né politicamente, né ideologicamente. Perché in effetti ciò che costituisce una donna è la relazione sociale specifica con un uomo, relazione che noi abbiamo precedentemente chiamato servitù15, relazione che implica obblighi personali e fisici, così come obblighi economici (la “residenza forzata”16, lavori domestici, doveri coniugali, produzione illimitata di figli, ecc.), relazione da cui le lesbiche fuggono rifiutando di diventare o di rimanere eterosessuali. Noi siamo sfuggite alla nostra classe nello stesso modo in cui hanno fatto gli schiavi fuggiaschi americani quando sono fuggiti dalla schiavitù e sono diventati uomini e donne liberi, questa per noi è una necessità assoluta e come per essi ed esse, la nostra sopravvivenza esige che noi contribuiamo con tutte le nostre forze alla distruzione della classe – le donne – nella quale gli uomini si appropriano delle donne e questo non può essere compiuto che attraverso la distruzione dell’eterosessualità come sistema sociale basato sull’oppressione e l’appropriazione delle donne da parte degli uomini e che produce il corpo delle dottrine della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione.

[Traduzione a cura di Daria, marzo 2003]

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PROGRAMMA FLAT

Care tutte,
ci siamo riunite ieri come Assemblea Romana per fare il punto sulla due
giorni ormai alle porte!
Valutando gli spazi messi a disposizione dalla Casa Internazionale delle
Donne abbiamo trovato una soluzione logistica per gli altri due tavoli
proposti.


I tavoli quindi potrebbero diventare 8!

 Gli altri due saranno:


7. La critica femminista delle culture patriarcali. Quali le possibilità
per le donne di occupare efficacemente uno spazio pubblico?


8. Razzismo

Questo in base alle mail ricevute, naturalmente la conferma definitiva
della candidatura alla relazione introduttiva per questi tavoli può essere
accompagnata da una riformulazione più esatta dei titoli.

 

Vorremmo anche comunicare che pensavamo di destinare i soldi che avanzano
da quelli che abbiamo raccolto per coprire le spese della due giorni e
quelli che verranno fuori dalla festa di sabato, alle compagne che ne
faranno richiesta per rimborsare in parte le spese di viaggio. Non sono
molti ma speriamo possano servire a dare la possibilità a quante più
possibile di raggiungere Roma sabato…

Infine ricordiamo che nella mattinata di sabato i lavori saranno aperti
alle 10, con un primo breve momento collettivo, per poi dividersi alle
10.30 nelle varie sale che ospiteranno i tavoli.
Vi aspettiamo!
Un saluto sommosso
l’assemblea romana

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Risoluzione del Consiglio d’Europa del 4 ottobre 2005 n.1464 – “Donne e religione in Europa” (in inglese)

(vedi il punto 7.3 :
garanzia della separazione tra Stato e chiesa per assicurare che le donne
non siano soggette a politiche e leggi di ispirazione religiosa, per es.
nell’area della famiglia divorzio e legge sull’aborto)

Resolution 1464 (2005) HYPERLINK "http://assembly.coe.int/main.asp?Link=/documents/adoptedtext/ta05/" l "_ftn1" o "" 1
Women and religion in Europe

1. In the lives of many European women, religion continues to play an important role. Whether they are believers or not, most women are affected in one way or another by the attitude of different faiths towards women, directly or through their traditional influence on society or the State.
2. This influence is seldom benign: women’s rights are often curtailed or violated in the name of religion. While most religions teach equality of women and men before God, they attribute different roles to women and men on earth. Religiously motivated gender stereotypes have conferred upon men a sense of superiority which has led to discriminatory treatment of women by men and even violence at their hands.
3. At one end of the spectrum lie the extreme violations of women’s human rights such as so-called “honour” crimes, forced marriages and female genital mutilation, which – although still rare in Europe – are on the rise in some communities.
4. At the other end are more subtle and less spectacular forms of intolerance and discrimination which are much more widespread in Europe – and which can be just as effective in achieving the subjection of women, such as the refusal to put into question a patriarchal culture which holds up the role of wife, mother and housewife as the ideal, and the refusal to adopt positive measures in favour of women (for example, in parliamentary elections).
5. All women living in Council of Europe member states have a right to equality and dignity in all areas of life. Freedom of religion cannot be accepted as a pretext to justify violations of women’s rights, be they open or subtle, legal or illegal, practised with or without the nominal consent of the victims – women.
6. It is the duty of the member states of the Council of Europe to protect women against violations of their rights in the name of religion and to promote and fully implement gender equality. States must not accept any religious or cultural relativism of women’s human rights. They must not agree to justify discrimination and inequality affecting women on grounds such as physical or biological differentiation based on or attributed to religion. They must fight against religiously motivated stereotypes of female and male roles from an early age, including in schools.
7. The Parliamentary Assembly thus calls on the member states of the Council of Europe to:
7.1. fully protect all women living in their country against all violations of their rights based on or attributed to religion by:
7.1.1. putting into place and enforcing specific and effective policies to fight all violations of women’s right to life, to bodily integrity, freedom of movement and free choice of partner, including so-called “honour” crimes, forced marriage and female genital mutilation, wherever and by whomever they are committed, however they are justified, and regardless of the nominal consent of the victim; this means that freedom of religion is limited by human rights;
7.1.2. refusing to recognise foreign family codes and personal status laws based on religious principles which violate women’s rights, and ceasing to apply them on their own soil, renegotiating bilateral treaties if necessary;
7.2. take a stand against violations of women’s human rights justified by religious or cultural relativism everywhere in the world, including in international fora such as the United Nations or the Inter-Parliamentary Union;
7.3. guarantee the separation between the Church and the State which is necessary to ensure that women are not subjected to religiously inspired policies and laws (for example, in the area of family, divorce, and abortion law);
7.4. ensure that freedom of religion and respect for culture and tradition are not accepted as pretexts to justify violations of women’s rights, including when underage girls are forced to submit to religious codes (including dress codes), their freedom of movement is curtailed or their access to contraception is barred by their family or community;
7.5. where religious education is permitted in schools, ensure that this teaching is in conformity with gender equality principles;
7.6. take a stand against any religious doctrine which is antidemocratic or disrespectful of human rights, especially women’s rights, and refuse to allow such doctrines to influence political decision making;
7.7. actively promote respect of women’s rights, equality and dignity in all areas of life when engaging in dialogue with representatives of different religions, and work on achieving full gender equality in society.

 HYPERLINK "http://assembly.coe.int/main.asp?Link=/documents/adoptedtext/ta05/" l "_ftnref1" o "" 1. Assembly debate on 4 October 2005 (26th Sitting) (see  HYPERLINK "http://assembly.coe.int//main.asp?link=http://assembly.coe.int/documents/WorkingDocs/doc05/EDOC10670.htm" Doc. 10670, report of the Committee on Equal Opportunities for Women and Men, rapporteur: Mrs Zapfl-Helbling).
Text adopted by the Assembly on 4 October 2005 (26th Sitting).

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Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 4 ottobre 2005 n.1720 – “Educazione e religione” (in inglese)

Recommendation 1720 (2005) HYPERLINK "http://assembly.coe.int/main.asp?Link=/documents/adoptedtext/ta05/" l "_ftn1" o "" 1
Education and religion

1. The Parliamentary Assembly forcefully reaffirms that each person’s religion, including the option of having no religion, is a strictly personal matter. However, this is not inconsistent with the view that a good general knowledge of religions and the resulting sense of tolerance are essential to the exercise of democratic citizenship.
2. In its Recommendation 1396 (1999) on religion and democracy, the Assembly asserted: “There is a religious aspect to many of the problems that contemporary society faces, such as intolerant fundamentalist movements and terrorist acts, racism and xenophobia, and ethnic conflicts.”
3. The family has a paramount role in the upbringing of children, including in the choice of a religious upbringing. However, knowledge of religions is dying out in many families. More and more young people lack the necessary bearings fully to apprehend the societies in which they live and others with which they are confronted.
4. The media – printed and audiovisual – can have a highly positive informative role. Some, however, especially among those aimed at the wider public, very often display a regrettable ignorance of religions, as shown for instance by the frequent unwarranted parallels drawn between Islam and certain fundamentalist and radical movements.
5. Politics and religion should be kept apart. However, democracy and religion should not be incompatible. In fact they should be valid partners in efforts for the common good. By tackling societal problems, the public authorities can eliminate many of the situations which can lead to religious extremism.
6. Education is essential for combating ignorance, stereotypes and misunderstanding of religions. Governments should also do more to guarantee freedom of conscience and of religious expression, to foster education on religions, to encourage dialogue with and between religions and to promote the cultural and social expression of religions.
7. School is a major component of education, of forming a critical spirit in future citizens and therefore of intercultural dialogue. It lays the foundations for tolerant behaviour, founded on respect for the dignity of each human being. By teaching children the history and philosophy of the main religions with restraint and objectivity and with respect for the values of the European Convention on Human Rights, it will effectively combat fanaticism. Understanding the history of political conflicts in the name of religion is essential.
8. Knowledge of religions is an integral part of knowledge of the history of mankind and civilisations. It is altogether distinct from belief in a specific religion and its observance. Even countries where one religion predominates should teach about the origins of all religions rather than favour a single one or encourage proselytising.
9. In Europe, there are various concurrent situations. Education systems generally – and especially the state schools in so-called secular countries – are not devoting enough resources to teaching about religions, or – particularly in countries where there is a state religion and in denominational schools – are focusing on only one religion. Some countries have prohibited the carrying or wearing of religious symbols in schools. These provisions have been judged as complying with the European Convention on Human Rights.
10. Unfortunately, all over Europe there is a shortage of teachers qualified to give comparative instruction in the different religions, so a European teacher training institute for that needs to be set up (at least for teacher trainers), which could benefit from the experience of a number of institutes and faculties in the different member countries that have long been researching and teaching the subject of comparative religion.
11. The Council of Europe assigns a key role to education in the construction of a democratic society, but study of religions in schools has not yet received special attention.
 
12. The Assembly observes moreover that the three monotheistic religions of the Book have common origins (Abraham) and share many values with other religions, and that the values upheld by the Council of Europe stem from these values.
13. Accordingly, the Assembly recommends that the Committee of Ministers:
13.1. examine the possible approaches to teaching about religions at primary and secondary levels, for example through basic modules which would subsequently be adapted to the various educational systems;
13.2. promote initial and in-service teacher training in religious studies respecting the principles set out in the previous paragraphs;
13.3. envisage setting up a European teacher training institute for the comparative study of religions.
14. The Assembly also recommends that the Committee of Ministers encourage the governments of member states to ensure that religious studies are taught at the primary and secondary levels of state education, on the basis of the following criteria in particular:
14.1. the aim of this education should be to make pupils discover the religions practised in their own and neighbouring countries, to make them perceive that everyone has the same right to believe that their religion is the “true faith” and that other people are not different human beings through having a different religion or not having a religion at all;
14.2. it should include, with complete impartiality, the history of the main religions, as well as the option of having no religion;
14.3. it should provide young people with educational tools that enable them to be quite secure in approaching supporters of a fanatical religious practice;
14.4. it must not overstep the borderline between the realms of culture and worship, even where a country with a state religion is concerned. It is not a matter of instilling a faith but of making young people understand why religions are sources of faith for millions;
14.5. teachers on religions need to have specific training. They should be teachers of a cultural or literary discipline. However, specialists in another discipline could be made responsible for this education;
14.6. the state authorities should look after teacher training and lay down the syllabuses which should be adapted to each country’s peculiarities and to the pupils’ ages. In devising these programmes, the Council of Europe will consult all partners concerned, including representatives of the religious faiths.

 HYPERLINK "http://assembly.coe.int/main.asp?Link=/documents/adoptedtext/ta05/" l "_ftnref1" o "" 1. Assembly debate on 4 October 2005 (27th Sitting) (see  HYPERLINK "http://assembly.coe.int//main.asp?link=http://assembly.coe.int/documents/WorkingDocs/doc05/EDOC10673.htm" Doc. 10673, report of the Committee on Culture, Science and Education, rapporteur: Mr Schneider).
Text adopted by the Assembly on 4 October 2005 (27th Sitting).

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LESBICHE E LAVORO da Francesca Grossi

Intervento di Francesca Grossi – Segreteria Nazionale Arcilesbica
2007 STESSE OPPORTUNITA’ NUOVE OPPORTUNITA’
Qualità di genere nel lavoro – Conferenza Nazionale 12 ottobre 2007

ABSTRACT
Tradizionalmente la tutela contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro ha riguardato le donne, nei confronti delle quali i principi costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento sono tuttavia, rimasti per lungo tempo, e tuttora in parte, non attuati.
Solo in tempi recenti abbiamo acquisito la consapevolezza, anche dal punto di vista legislativo, delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, sebbene la normativa in materia non rappresenti uno strumento efficace per favorire la visibilità delle lesbiche e la vivibilità degli ambienti di lavoro.
La progressiva precarizzazione del  lavoro è un ulteriore elemento di inibizione e di potenziale discriminazione.
I dati consultati restituiscono un valore minore al 50% del campione di donne che rivelano di essere lesbiche sul posto di lavoro.
In aggiunta, la precarietà lavorativa per le giovani lesbiche può risultare ancora più insidiosa, a causa di rapporti familiari tesi per la mancata accettazione dell’omosessualità, mentre, per chi sta in coppia, un ulteriore aggravio è dato dalla mancata equiparazione di eventuali forme di tutele o benefici in ragione della presenza di un coniuge.
Sul piano normativo è urgente una revisione della normativa in materia secondo principi di pari opportunità, e non solo di semplice tutela, integrando gli interventi a favore delle donne e delle persone con diverso orientamento sessuale e identità di genere, come pure una forma di riconoscimento delle unioni omosessuali.
Inoltre è necessario permeare le politiche sociali con una visione che includa e valorizzi le differenze: ad esempio nelle politiche per la famiglia facendo un passaggio dalla “famiglia” alle “famiglie”, intese come modello plurale di istituzione familiare.

Introduzione

Rivisitare in chiave di genere le politiche del lavoro, è un compito quanto mai necessario per superare il paradosso di uno stato moderno e con una giurisprudenza avanzata è ancora tanto escludente verso le donne.

Sappiamo che il compito non si esaurisce, se non ci si apre ad una  visione plurale delle identità e delle categorie sociali, che tenga conto diversi fattori identitari della persona e comprenda diversità culturali o aspetti profondi della personalità, come l’orientamento sessuale.

In questa relazione tenterò di portare lo sguardo di questo convegno alla vita delle donne lesbiche nel luogo di lavoro, al rapporto con la precarizzazione dei lavori, alle strategie di sopravvivenze e di focalizzare quali sono i rischi di discriminazione e quali sono gli effetti, e, infine, di fornire spunti ed idee, aiutata dalle esperienze europee, per mettere in pratica progetti efficaci nei luoghi di lavoro.

Quadro normativo
Tradizionalmente la tutela contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro ha riguardato le donne, nei confronti delle quali i principi costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento sono rimasti per lungo tempo, e tuttora in parte, non attuati.

Solo in tempi recenti abbiamo acquisito la consapevolezza, anche dal punto di vista legislativo, delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.

L’Unione europea si sta adoperando da molti anni per promuovere i diritti fondamentali e la non discriminazione delle persone omosessuali.

Un passaggio importante viene segnato dalla Risoluzione dell’8 febbraio 1994 "Sulla parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità“.

In tema di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, l’ambito lavorativo, è l’unico specificamente trattato nella normativa europea e nazionale, diversamente da altre categorie all’origine dei trattamenti discriminatori. (Direttiva EC/78/2000).

La direttiva esprime concetti di uguaglianza in tema di occupazione, condizioni di lavoro, formazione; individua lo strumento del “dialogo sociale” come leva per la promozione delle pari opportunità, affronta ed amplia il concetto di molestia sessuale, includendo il  caso in cui l’oggetto di questi comportamenti sia una lesbica un gay un o una trans o presunti tali.

L’Italia nel 2003 ha recepito la direttiva ed ha emanato un decreto legislativo (n.216),  che vieta le discriminazioni per orientamento sessuale sul lavoro.

Anche la riforma del mercato del lavoro in un articolo dove tratta il divieto di indagine  sui lavoratori per le Agenzie, e altri operatori pubblici e privati, esplicita tra le categorie l’orientamento sessuale.

Gli  strumenti legislativi di cui disponiamo, quanto sono in grado di garantire l’effettività delle norme, in particolare quando il lavoro è precario?

La risposta è negativa per il DL 216, costruito con numerose lacune d eccezioni al principio di uguaglianza, adoperando equilibrismi legislativi, che arrivano fino al travisamento dei principi ispiratori della norma. Manca del tutto la previsione di strumenti di sensibilizzazione di promozione e di un ruolo attivo da parte delle associazioni di categoria, che sono, finora, detentrici della necessaria conoscenza dei fenomeni.

La risposta è negativa per la legge di riforma del mercato del lavoro, poiché le limitazione alle indagini nei confronti dei lavoratori, non possono rimuovere gli  ostacoli fondamentali che lesbiche e gay incontrano nella proprio a vita lavorativa.

Sappiamo che con la riforma del mercato del lavoro, contestualmente all’aumento delle tipologie di operatori ed alla moltiplicazione di tipologie contrattuali, si sono modificate in parte le tutele tradizionali del lavoro, sono aumentati i rischi di precarizzazione dei lavoratori addetti ad attività connotate da un elevato grado di flessibilità.

Nel quadro delle nuove regole è indubbio che i diritti di coloro che ricorrono, più spesso per  scelta obbligata, alle forme di lavoro atipiche, possono essere più facilmente violati, con maggiore difficoltà nel richiederne il rispetto.

La vita lavorativa delle lesbiche

In questo quadro qual è la situazione delle lesbiche, qual è legame  tra la vita lavorativa delle lesbiche e la precarietà del lavoro?

Fatto salvo il diritto di ognuno ad esprimere la propria identità, la prima fondamentale considerazione è che la condizione di precarietà dal punto di vista lavorativo può rappresentare un elemento di ulteriore inibizione dell’affermazione del proprio orientamento sessuale.

Questo comporta costi molto alti sia da un punto di vista personale che collettivo.

Ricerche condotte nel nostro e in altri Paesi (tra le ricerche consultate: "Diversi da chi? Gay, lesbiche, trans in un’area metropolitana", Chiara Saraceno, Guerini e Associati, Milano, 2003) indicano che il lavoro (inteso come lavoro stabile, regolato quindi da un contratto a tempo indeterminato) rappresenta un contesto che le persone omosessuali percepiscono come più insidioso rispetto alle discriminazioni e dove la visibilità appare più rischiosa.
Molte persone che sono uscite allo scoperto con gli amici e la famiglia hanno quindi scelto, per varie ragioni, di non fare altrettanto sul posto di lavoro.

Per dare una misura, i dati consultati restituiscono un valore minore al 50% del campione di donne che rivelano di essere lesbiche sul posto di lavoro.

Risulta da questa indagine che, riguardo al proprio essere lesbica,  il 19% delle donne dichiara che tutti i colleghi sono informati, l’8% che la maggioranza è informata, il 24% che la minoranza è informata, l’11% presume che sappiano, ma non se ne è mai parlato. Le percentuali di persone informate scendono quando si tratta di superiori o subordinati. In generale le donne tendono ad essere meno visibili degli uomini e più prudenti quando si tratta di subordinati o superiori.

Da un’inchiesta della Libera Università delle Donne, condotta nel corso del 2001, risulta che il 46% delle intervistate ha dichiarato la propria omosessualità  a poche fidate persone, l’11% a tutti, il 35 % a nessuno. Il 56 % delle lesbiche dichiarate testimonia di  aver suscitato simpatie e solidarietà, il 33% indifferenza, il 12 % di essere stata oggetto di derisione o emarginazione.

Per quanto riguarda le reazioni al coming out, le ricerche restituiscono un risultato variabile tra il 20 ed il 40 %, di persone che sono state testimoni di atti discriminatori di vario genere.

Essi vengono riferiti  come derisione (61 %), emarginazione (20%), minacce cambiamento di mansioni, licenziamento e violenze fisiche (11%).

Da una ricerca condotta da ArciLesbica nel 1999 su un campione di 90 intervistate, quasi tutte di età compresa tra il 25 e il 35 anni, geograficamente miste, quasi tutte senza figli, quasi tutte con titolo di studio diploma o laurea, e occupate: 86 hanno detto che le lesbiche non si dichiarano sul posto di lavoro per non rischiare di avere problemi. Tra i problemi si individua, come principale, l’emarginazione.

Quali sono le dinamiche di relazione e le strategie di sopravvivenza?

Ad ogni ingresso in un posto di lavoro, le lesbiche si trovano a fronteggiare un dilemma: se, e come, manifestare il proprio orientamento sessuale, oppure se, e come, assecondare la cosiddetta presunzione di eterosessualità.
    
Il luogo di lavoro è  un microcosmo in cui si riproducono relazioni e pregiudizi presenti nel resto della società. Ci sono situazioni in cui le persone vivono l’omosessualità di una collega come un fatto totalmente normale, ma in altri casi l’ambiente di lavoro può diventare invivibile al punto da compromettere la salute e le relazioni. Sono moltissime le persone che si sono rivolte agli sportelli sindacali perché hanno subito discriminazioni tali da costringerle ad abbandonare il lavoro.

Difficilmente si devono affrontare casi di discriminazioni dirette, è molto più probabile che si tratti di mobbing, La discriminazione può venire sia dal versante del datore di lavoro e che da quello dei colleghi.

Quindi, generalmente, le discriminazioni vengono mascherate attraverso pretesti legali, avvengono in modo indiretto e quasi mai l’omosessualità della dipendente é motivo "ufficiale" di un provvedimento del datore di lavoro.

Che succede con i lavori a termine, a progetto le nuove forme contrattuali?

Attraverso la progressiva precarizzazione dell’occupazione i datori di lavoro non sono nemmeno più obbligati a trovare pretesti o scuse per disfarsi della lavoratrice o del lavoratore indesiderato. Semplicemente non rinnoveranno più il contratto.

Si può quindi supporre che il timore di non vedersi più rinnovare il contratto, spinga ancora di più le lesbiche all’invisibilità sul posto di lavoro e quindi a ulteriori forme di autolimitazione nell’espressione della propria personalità.

Le scelte rispetto al grado di visibilità dipendono da un insieme di considerazioni.

Esse dipendono dal grado di sollecitazione alla comunicazione e visibilità che un determinato contesto lavorativo esprime nei confronti della vita privata delle persone e dalla misura in cui il codice della eterosessualità fa parte dello stile comunicativo informale.

Esse riguardano i costi e i benefici dell’essere visibili come lesbiche in un dato posto di lavoro: dalla potenziale pericolosità per la carriera, in relazione ad esempio al tipo di rapporto di lavoro (dipendente o autonomo, precario o fisso), al grado di fiducia verso i singoli colleghi o colleghe con cui si vuole venire allo scoperto, ai potenziali costi di una perdita del lavoro.

Inoltre, la visibilità è considerata particolarmente pericolosa anche per certi tipi di lavoro: è il caso degli insegnanti e di altre figure professionali che lavorano con i minori.

Ma anche la scelta dell’invisibilità non è priva di conseguenze.

Restare non visibili sul posto di lavoro non è una scelta passiva.
Sul posto di lavoro, l’eterosessualità non è soltanto data per scontata, ma anche continuamente manifestata, dall’anello al dito alle foto di famiglia, dalle confidenze con i colleghi, alle occasioni sociali in cui sono invitati i partner. Per restare invisibili sono quindi necessarie strategie per adeguarsi a queste aspettative, arrivando fino alla contraffazione di un’identità eterosessuale.

Queste strategie hanno costi in riferimento alla possibilità di stabilire relazioni di complicità, amicizia con i colleghi, o più in generale al disagio nell’essere forzati a nascondere una parte di sé sul lavoro,

In questo caso, si verifica pertanto una progressiva interiorizzazione della condizione di marginalità, un adattarsi al sopruso per quieto vivere immediato con ripercussioni sull’autostima e rinuncia a rivendicare il diritto al rispetto e alla qualità di vita.
 
Non solo, ciò porta ad una sostanziale sottovalutazione del fenomeno generale della discriminazione e dei problemi esistenti in primo luogo da parte di chi si autolimita e non si difende.

Altri costi sono dovuti al fatto che non essere visibili può impedire di reagire come si vorrebbe a comportamenti discriminatori o offensivi nei confronti di altre lesbiche.

Ma le esperienze dicono che ci sono ulteriori fattori di complessità ed altre conseguenze.

Al di là delle strategie personali le ricerche riferiscono di una maggiore preoccupazione tra le più giovani, forse perché meno sicure complessivamente di sé e della propria capacità di gestire le situazioni; ma forse anche perché, come tutte le loro coetanee, percepiscono il mercato del lavoro caratterizzato da poche sicurezze ed elevata competizione.

Per le lesbiche la precarietà dal punto di vista lavorativo può risultare ancora più insidiosa, nel momento in cui non possono contare sulla famiglia di origine a causa di rapporti tesi per la mancata accettazione dell’omosessualità.

Per chi sta in coppia invece la precarietà sul lavoro va ad aggiungersi alla precarietà generata dall’impossibilità di dare riconoscimento giuridico al proprio rapporto di coppia, alla totale assenza di diritti e garanzie a cui appellarsi in caso di scioglimento della coppia o di morte della partner, alla mancata equiparazione di eventuali forme di tutele o benefici in ragione della presenza di un coniuge.

Gli interventi necessari

Sul piano normativo è urgente una revisione del DL 216 del 2003, superando le lacune e gli ostacoli alla piena tutela delle persone omosessuali, come pure una forma di riconoscimento delle unioni omosessuali.

Inoltre è necessario permeare le politiche sociali con una visione che includa e valorizzi le differenze: ad esempio nelle politiche per la famiglia facendo un passaggio dalla “famiglia” alle “famiglie”, intese come modello plurale di istituzione familiare.

Quali buone pratiche per le pari opportunità che possono essere applicate nel mondo del lavoro?

Sappiamo che in Italia la condizione delle persone omosessuali e transessuali, risulta fortemente penalizzata dalla persistenza di uno stigma sociale, ed una inadeguatezza culturale e storica da parte della società a recepire stili di vita non corrispondenti a standard rassicuranti, definiti come socialmente accettabili. Quindi ci muoviamo in quadro non rassicurante sotto il profilo culturale, oltre che carente sul piano legislativo.

Un approccio importante parte dalla considerazione che le donne lesbiche sono esposte a rischi di discriminazione multipla.

E’ un approccio già ampiamente sviluppato, poiché nella decisione del Consiglio e del Parlamento Europeo, che ha istituito per il 2007 l’anno della pari opportunità, un punto focale è la necessità di politiche per le pari opportunità, che non prescindano dalla differenza di genere, ma che adottino un approccio “orizzontale” nel contrasto alle discriminazioni di genere, sesso, religione, etnia, età e disabilità.

Un punto di partenza fondamentale è il riconoscimento delle radici culturali e delle dinamiche sociali che generano l’esclusione, e creano percorsi ad ostacoli e sofferenza nella vita lavorativa,  passando dalla discriminazione di genere, alla presunzione di eterosessualità, allo stigma sociale della omosessualità.

L’obiettivo deve essere quello della creazione di un ambiente favorevole alla libera espressione delle diverse identità.

Abbiamo esempi, che vengono dagli Stati Uniti e dal Nord Europa, di progetti che coinvolgono datori di lavori e lavoratori, all’interno delle loro routine, al fine di vivere con consapevolezza la presenza di colleghi di diverso orientamento sessuale.

Ricordiamo l’istituzione da parte di alcune imprese della figura del diversity manager, esperienza dalla quale si possono mutuare alcuni principi.

Il Diversity Management nasce, nei primi anni novanta, negli Stati Uniti.  Secondo le definizione che viene dal mondo delle imprese, il Diversity Management è un processo aziendale di cambiamento, che ha lo scopo di valorizzare e utilizzare pienamente il contributo, unico, che ciascun dipendente può portare per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Inoltre, nello specifico della vita lavorativa di gay e lesbiche, possiamo riferirci ad esperienze europee.
In una, che ci arriva dalla Svezia, realizzata da una rete formata da sindacati, associazioni di categoria e soggetti istituzionali, dagli enti locali alle forze armate svedesi, portiamo l’esempio di un progetto che ha lo scopo creare all’interno dei luoghi di lavoro, un clima favorevole alla inclusione ed espressione identitaria.

Un azione sul piano culturale, per la rimozione delle credenze, ma anche per l’acquisizione di maggiore consapevolezza da parte di colleghi e datori di lavoro della presenza di colleghi omosessuali o della possibilità che essi siano presenti.

Uno dei “tool” distribuiti per l’utilizzo nei luoghi di lavoro contiene i seguente messaggi:

Come appare il tuo posto di lavoro?

Sono tutti partecipi quando durante il pranzo del lunedì si parla dello scorso week-end, o qualcuno siede in silenzio?

Va tutto bene quando porti il tuo partner di nome Lisa al party di Natale, se il tuo nome è Julie?

Provare a rispondere a queste domande è già un passaggio importante per la definizione della questione e per favorire un cambiamento culturale.

Le esperienze citate, possono essere riportate al nostro contesto e fornire uno spunto per promuovere simili iniziative; forse possiamo iniziare a pensare al prossimo bollino per le aziende del colore dell’arcobaleno.

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LESBICHE E PRECARIETA’ da Giovanna Camertoni

PARIGI, 12 NOVEMBRE 2003

Cosa centra la precarizzazione dei rapporti di lavoro con le lesbiche? Ovviamente, quando non vivono di rendita, le lesbiche sono lavoratrici come tutte le altre. Ma la precarietà ha anche qualcosa a che fare con la specifica condizione delle lesbiche?
In questo intervento cercherò di mettere in evidenza alcuni effetti della precarizzazione dei rapporti di lavoro sulla vita delle lesbiche.
Cercherò di dimostrare come la condizione di precarietà dal punto di vista lavorativo può rappresentare un elemento di ulteriore inibizione dell’affermazione del proprio orientamento sessuale da parte delle lesbiche con costi molto alti sia da un punto di vista personale che collettivo.
Questo perché i rapporti di lavoro precario, così come l’abolizione dei diritti fondamentali tra cui l’articolo 18 (che è diventato un simbolo delle condizioni di lavoro in generale), rendono tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici maggiormente ricattabili, consentendo ai datori di lavoro di liberarsi con estrema facilità delle persone scomode o indesiderate. Tra queste, a volte, per varie ragioni, ci possono essere le lesbiche.
Ricerche condotte nel nostro e in altri Paesi (tra le ricerche consultate: "Diversi da chi? Gay, lesbiche, trans in un’area metropolitana", Chiara Saraceno, Guerini e Associati, Milano, 2003) indicano che il lavoro (s’intende lavoro stabile, regolato quindi da un con contratto a tempo indeterminato) rappresenta un contesto in cui, in generale, le persone omosessuali si percepiscono come più vulnerabili alle discriminazioni e la visibilità appare più rischiosa. Molte persone che sono uscite allo scoperto con gli amici e la famiglia hanno quindi scelto, per varie ragioni, di non fare altrettanto sul posto di lavoro.
A ogni ingresso in un posto di lavoro, le lesbiche si trovano a fronteggiare un dilemma: se (e come) manifestare il proprio orientamento sessuale, oppure se (e come) assecondare l’assunto di eterosessualità che normalmente permea le relazioni di lavoro.
Più che di una scelta dicotomica, essere visibili o meno, si tratta di un costante processo di "gestione di un’identità stigmatizzata", lungo un continuum che va dall’imitazione di una vita eterosessuale alla completa visibilità, a cui corrisponde un continuum di rischi e di forme di discriminazione.
Per descrivere le diverse discriminazioni alle quali le persone omosessuali sono esposte sul lavoro, si distingue tra due tipi di stigma sociale. Il primo è lo stigma visibile, formulato esplicitamente. Il secondo è lo stigma non ovvio, non visibile, che pone una sfida diversa, quella delle strategie di "gestione delle informazioni". In questo caso sono i prevedibili danni che la circolazione di informazioni riguardo alla propria omosessualità può causare a rendere le persone vulnerabili.
Nel primo caso, quello dello stigma visibile, i meccanismi che producono discriminazioni sono fondati sulla riduzione delle persone omosessuali a un comportamento sessuale considerato come deviante.
In Italia, forse più che altrove, la condizione delle lesbiche nel lavoro e nella vita di tutti i giorni risulta penalizzata da un pregiudizio antico sostenuto da una ingerenza del potere confessionale nelle competenze dello Stato e della società civile particolarmente forte, dall’ostilità e dalla volontà di conservazione delle gerarchie cattoliche che storicamente hanno stigmatizzato come deviante, immorale e pericolosa per i valori della comunità ogni relazione affettiva, sentimentale e sessuale non a fini procreativi, mentre i vari stereotipi sono diventati marchiatura funzionale al mantenimento dell’ordine sociale.
A questo proposito, recentemente il cardinale Joseph Ratzinger ha reso pubblico un documento in cui le gerarchie vaticane si propongono di "illuminare l’attività degli uomini politici cattolici" affinché venga impedito il riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso in quanto "gravemente nocive" per la società: un concentrato di integralismo religioso e di istigazione alla persecuzione delle persone omosessuali.
Le ragioni della discriminazione delle lesbiche vanno quindi ricercate nella presenza di nuovi e vecchi integralismi, nella resistenza e nell’inadeguatezza culturale e storica da parte della società a recepire stili di vita non corrispondenti a standard rassicuranti definiti come "socialmente accettabili".
Le lesbiche rischiano di essere discriminate quando la loro condizione diventa di dominio pubblico. Le discriminazioni si manifestano quando la persona ha deciso di fare il proprio "coming out", ha cioé deciso di rivelare la propria omosessualità per viverla liberamente.
Difficilmente si devono affrontare casi di discriminazioni dirette, è molto più probabile che si tratti di mobbing.
La discriminazione è strisciante e avviene su due versanti: quello del datore di lavoro e quello dei colleghi. E’ frequente che il datore di lavoro non assegni incarichi in cui si sono relazioni con i clienti o spesso ci si trova a non poter lavorare perché non vengono fornite tutte le informazioni per portare a termine un processo o un progetto.
L’altra fonte di discriminazione sono i colleghi di lavoro. L’azienda può infatti essere considerata un microcosmo in cui si riproducono relazioni e pregiudizi presenti nel resto della società. Ci sono situazioni in cui i colleghi vivono l’omosessualità di una collega come un fatto totalmente normale, ma in altri casi l’ambiente di lavoro può diventare invivibile al punto da compromettere la salute e le relazioni. Sono moltissime le persone che si sono rivolte agli sportelli sindacali perché hanno subito discriminazioni tali da costringerle ad abbandonare il lavoro. Si va dai messaggi minatori lasciati nell’armadietto alle telefonate anonime, dalle prese in giro che a volte sembrano anche simpatiche ma che possono diventare molto pesanti, fino ad arrivare a situazioni in cui la persona non è più nella condizione di svolgere il lavoro o di partecipare alle relazioni sociali.
In questa fase, la persona mobbizzata manifesta spesso disturbi psicosomatici, consistenti in insonnia, nodo alla gola, tremore alle gambe, sfinimenti, depressione, mal di schiena, perdita di capelli, vomito, che denotano un certo squilibrio, anche di carattere psichico e caratteriale.
La persona può inoltre iniziare a dare segnali di cedimento della personalità, con continui scatti di nervosismo o di totale assenza o sfiducia nelle proprie capacità lavorative e personali.
A causa di questi malesseri, può inoltre assentarsi dal lavoro per malattia, anche per lunghi periodi, con grave deprezzamento delle sue capacità e della sua immagine professionale e danni alla salute e con costi collettivi molto alti.
Le lesbiche possono essere quindi oggetto di molestie o mobbing da parte dei colleghi o del datore di lavoro, costrette a subire forme di terrore psicologico, ostilità, trasferimenti punitivi, mansioni umilianti, mancati avanzamenti di carriera: tutto ciò che serve a rendere la vita difficile a una dipendente indesiderata.
In un certo numero di casi, inoltre, lavoratrici lesbiche hanno perso il loro posto di lavoro per il loro orientamento sessuale. Sono state scartate o allontanate per la loro libertà conquistata, per la loro visibilità che tuttavia nessun danno creava alla loro professionalità.
Le lesbiche sono discriminate in primo luogo in quanto donne e poi per la loro omosessualità. L’omosessualità femminile può essere considerata relativamente poco visibile e perciò può apparire meno problematica, ma anche l’omosessualità femminile costituisce un fattore discriminante nell’ambiente di lavoro il più delle volte sottovalutato dalle stesse lesbiche.
In teoria, non si può perdere il posto di lavoro, ma sono molte le pressioni e gli strumenti per convincere una dipendente con orientamento non conforme ai dettami del datore di lavoro a licenziarsi, a vivere nella clandestinità o a mentire, per difendere il proprio posto di lavoro.
Nessun provvedimento sanzionatorio, infatti, può essere preso a motivo esplicito dell’orientamento sessuale delle persone. Pertanto, generalmente, le discriminazioni vengono mascherate attraverso pretesti legali, avvengono in modo indiretto e quasi mai l’omosessualità della dipendente é motivo "ufficiale" di un provvedimento disciplinare.
Attraverso la progressiva precarizzazione dell’occupazione i datori di lavoro non saranno nemmeno più obbligati a trovare pretesti o scuse per disfarsi della lavoratrice o del lavoratore indesiderato. Semplicemente non le rinnoveranno più il contratto.
La spinta verso una sempre maggiore flessibilità consentirà infatti ai datori di lavoro di allontanare con estrema facilità le lavoratrici lesbiche non gradite nel proprio organico.
Si può quindi supporre che il timore di non vedersi più rinnovare il contratto, spingerà ancora di più le lesbiche all’invisibilità sul posto di lavoro e quindi a ulteriori forme di autolimitazione nell’espressione della propria personalità.
Ricerche recenti hanno infatti dimostrato che una differenza rimarchevole sul grado di visibilità delle lesbiche sul posto di lavoro riguarda la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.
Chi svolge un lavoro autonomo è più visibile rispetto a chi ha un lavoro dipendente. Ciò appare comprensibile, dato che chi svolge un lavoro autonomo si trova più spesso a lavorare da solo, e non è esposto all’interazione con colleghi e superiori o subordinati.
Le scelte rispetto al grado di visibilità dipendono da un insieme di considerazioni. Sono relative, da un lato al grado di sollecitazione alla comunicazione e visibilità che un determinato contesto lavorativo esprime nei confronti della vita privata delle persone e dalla misura in cui il codice della (etero-) sessualità fa parte dello stile comunicativo informale; dall’altro, riguardano i costi e i benefici dell’essere visibili come lesbiche in un dato posto di lavoro: dalla potenziale pericolosità per la carriera, in relazione ad esempio al tipo di rapporto di lavoro (dipendente o autonomo, precario o fisso), al grado di fiducia verso i singoli colleghi o colleghe con cui si vuole venire allo scoperto, ai potenziali costi di una perdita del lavoro.
Tali scelte cambiano, quindi, in base al contesto specifico più che all’atteggiamento generale degli intervistati rispetto alla visibilità.
Si nota così una maggiore preoccupazione tra le più giovani, forse perché meno sicure complessivamente di sé e della propria capacità di gestire le situazioni; ma forse anche perché, come tutte le loro coetanee, percepiscono il mercato del lavoro caratterizzato da poche sicurezze ed elevata competizione. Temono quindi che l’esporsi come lesbiche diminuisca le loro chance di collocazione e aumenti quelle di espulsione.
A tal proposito risulta emblematico il caso di Grazia, 21 anni di Torino. Grazia ha dichiarato di essere lesbica in famiglia e agli amici, che conoscono la sua compagna. Sul lavoro ha compiuto scelte diverse. Nella ditta di pulizie in cui lavorava saltuariamente non ha pensato di rendersi visibile a nessuno, perché era appunto un lavoro troppo saltuario. Recentemente è stata assunta come dipendente di un ente pubblico. Nel nuovo lavoro era intenzionata a rendersi visibile così come lo è negli altri ambiti della sua vita, ma ha scelto di "non rischiare", per ora:

"Qui faccio finta di essere eterosessuale. Nel senso che se mi chiedono: ‘Cosa hai fatto ieri sera?’; io invece che rispondere: ‘Sono uscita con la mia ragazza’ dico ‘Sono uscita col mio ragazzo’, oppure quando mi chiama al telefono lei… e mi chiama spesso… dico che era il mio ragazzo. Ma questo non è tanto nella mia natura. Io prima non ero così, prima non avevo nessun problema a dire che ero lesbica, che avevo una donna, ecc… Ma lì la mia compagna mi ha detto: ‘Hai ancora due mesi di prova da fare, ci hai messo tanto a trovare questo lavoro… vacci un po’ coi piedi di piombo perché sai…" E io le ho detto: ‘Mica mi potranno mandare via perché sono lesbica?’. Lei mi ha detto: ‘Certo che no, ma potrebbero trovare qualsiasi altra scusa’. Quindi ci sto andando coi piedi di piombo.

Grazia però non esclude di parlare a qualcuno, se si dovesse instaurare un rapporto di amicizia. Intanto per capire che conseguenze la sua visibilità potrebbe avere, sta "tastando il terreno", osservando le reazioni dei colleghi quando si parla di altre persone omosessuali. Per qualsiasi decisione aspetta, comunque, che finisca il periodo di prova.
Superato il periodo di prova si può ragionevolmente supporre che Grazia dichiarerà il proprio orientamento sessuale alle sue colleghe e superiori. Ma se il periodo di prova non dovesse finire mai? Se cioè la condizione di precarietà lavorativa fosse una condizione non limitata nel tempo, ma permanente?
Probabilmente Grazia tenderebbe a non dichiarare il proprio orientamento sessuale per timore che questo possa compromettere la continuazione del rapporto di lavoro attraverso, ad esempio, il mancato rinnovo del contratto.
Inoltre, il continuo passaggio da un’attività lavorativa precaria ad un’altra altrettanto precaria, le impedirebbe di instaurare relazioni sufficientemente significative di fiducia e amicizia con le proprie colleghe/ghi, tali da consentirle di dichiarare serenamente, dopo un po’ di tempo, il proprio orientamento sessuale.
Un altro elemento che può spingere le persone a non dichiarare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro è la totale assenza nella legislazione italiana di tutele specifiche.
In Italia, infatti, il decreto di attuazione della direttiva europea 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parita’ di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, non rappresenta un efficace strumento contro le discriminazioni, in particolare per quelle relative all’orientamento sessuale. Il Governo italiano ha infatti introdotto nel decreto di attuazione ogni possibile eccezione ammessa e violato alcune disposizioni fondamentali. Il decreto non recepisce inoltre le disposizioni della direttiva relative all’inversione dell’onere della prova e propone un pericoloso accostamento tra omosessualità e pedofilia.
La precarietà dal punto di vista lavorativo significa inoltre precarietà esistenziale e maggiore povertà per tutti.  Per le lesbiche la precarietà dal punto di vista lavorativo può risultare ancora più insidiosa, nel momento in cui non possono contare sulla famiglia di origine perché i rapporti sono tesi a causa della mancata accettazione da parte dei genitori dell’omosessualità della figlia, altrimenti le può obbligare a rimanere in famiglia, nonostante i rapporti conflittuali, perché i rapporti di lavoro sono saltuari, frammentati, e non riescono a mantenersi.
Per chi sta in coppia invece la precarietà sul lavoro va ad aggiungersi al senso di precarietà generato dall’impossibilità di dare riconoscimento giuridico al proprio rapporto di coppia e quindi alla totale assenza di diritti e garanzie a cui appellarsi in caso di scioglimento della coppia o di morte della partner.
Se la discriminazione appare in modo più evidente quando lo stigma è visibile, anche nei casi di non visibilità esiste una forma di discriminazione, che consiste nei costi che la persona deve sostenere per realizzare questa "gestione delle informazioni", attraverso costanti processi di nascondimento.
Chi ha scelto di tenere nascosta o di non comunicare la propria omosessualità, anche a costo di "passare per eterosessuali" motiva tale decisione con la preoccupazione della discriminazione. Le lesbiche cioè manifestano la paura di effetti negativi per la propria posizione lavorativa e per le prospettive di carriera, fino all’eventualità di essere licenziate. E’ evidente quindi che sentire la necessità di nascondersi è già una forma di discriminazione.
Effetti negativi sulla carriera sono anche indicati come possibile conseguenza di un deterioramento delle relazioni con i colleghi. La visibilità è considerata particolarmente pericolosa anche per certi tipi di lavoro: è il caso degli insegnanti e di altre figure professionali che lavorano con i minori.
Da una ricerca condotta da ArciLesbica nel 1999 su un campione di 90 intervistate, quasi tutte di età compresa tra il 25 e il 35 anni, geograficamente miste, quasi tutte senza figli, quasi tutte con titolo di studio diploma o laurea, e occupate: 86 pensano che le lesbiche non si dichiarano sul posto di lavoro per non rischiare di avere problemi. Tra i problemi si individua, come principale, l’emarginazione.
Si può quindi affermare che gran parte delle lesbiche teme che rivelare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro possa danneggiarle professionalmente, quindi scelgono di mantenersi invisibili.
La scelta dell’invisibilità non è però priva di conseguenze.
Nel lavoro, mantenersi non visibili può significare, infatti, dover celare aspetti essenziali della propria personalità, sottrarsi a relazioni di amicizia o confidenza con i colleghi, descrivere in modo distorto la propria vita privata (ad esempio alterando il sesso del proprio partner), creando problemi di credibilità che tendono ad aumentare nel tempo, producendo ansia.
Restare non visibili sul posto di lavoro non è una scelta passiva, il silenzio non basta. Sul posto di lavoro, l’eterosessualità non è soltanto data per scontata, ma anche continuamente manifestata, dall’anello al dito alle foto di famiglia, dalle confidenze con i colleghi su fidanzati, marti e figli, alle occasioni sociali in cui sono invitati i partner. Per restare invisibili sono quindi necessarie strategie per adeguarsi a queste aspettative, contraffacendo un’identità eterosessuale, o per evitare situazioni o discussioni che potrebbero rivelare il proprio orientamento sessuale.
Queste strategie hanno costi in riferimento alla possibilità di stabilire relazioni di complicità, amicizia con i colleghi, o più in generale al disagio nell’essere forzati a nascondere una parte di sé sul lavoro.
In questo caso, si verifica pertanto una progressiva interiorizzazione della marginalizzazione, un adattarsi al sopruso per quieto vivere immediato con ripercussioni sull’autostima e rinuncia a rivendicare il diritto al rispetto e alla vivibilità per sé, ma anche per tutte le altre.
Ciò porta ad una sostanziale sottovalutazione del fenomeno generale della discriminazione e dei problemi esistenti in primo luogo da parte di chi si autolimita e non si difende. Altri costi sono dovuti al fatto che non essere visibili può impedire di reagire come si vorrebbe a comportamenti discriminatori o offensivi nei confronti di altre lesbiche.

Giovanna Camertoni
RECAPITO PER INFO: giovanna.camertoni@infinito.it

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DESTRA, SINISTRA E “QUESTIONE OMOSESSUALE da Lidia Cirillo

E’ una delle quattro relazioni della sessione politica del convegno di ArciLesbica  “La storia che non c’era”, che ha avuto luogo nei giorni 1-2-3 giugno 2007 presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma.
 
La mia relazione vuole rendere conto dell’atteggiamento di partiti, organizzazioni e correnti politiche verso quella che potremmo chiamare “questione omosessuale”, facendo eco alla formula (questione femminile) con cui il movimento operaio del Novecento cominciò a farsi carico delle rivendicazioni femministe. Come per il femminismo, l’assunzione di responsabilità – o al contrario la riscrittura politica dell’omofobia – sono conseguenza dell’emergere di soggettività che hanno cercato e trovato accesso alle istituzioni. Si è trattato in qualche caso di piccoli gruppi; in altri casi di vere e proprie organizzazioni o di movimenti organizzati.
Il rapporto tra questi movimenti e i partiti è stato lungo e complesso più di quanto di solito si crede. Basti pensare che già nella Repubblica di Weimar le riviste lesbiche e gay davano indicazioni di voto sulla base della permeabilità di una corrente politica alle loro doléances e alle loro domande.  Voglio dire che esiste una storia da cui è possibile dedurre le logiche che ne sono state la guida.  Per questioni di tempo e perché la relazione riguarda il presente ne anticiperò una sintetica spiegazione, che dovrebbe rendere più comprensibili i comportamenti attuali.
L’atteggiamento di correnti politiche, partiti e istituzioni nei confronti degli orientamenti diversi dall’eterosessualità risponde a logiche individuabili ed è soprattutto rivelatore del loro rapporto con la società più profonda,  con le classi subalterne e i settori popolari in genere.
Con un’estrema semplificazione si può dire che un partito, una corrente politica possono cercare in due modi il consenso nei settori popolari più larghi: facendo leva su superstizioni e fobie, limiti di cultura e fantasmi; rispondendo a bisogni ed esigenze vitali, contribuendo ad alleviare condizioni di vita difficili. Mi riferisco naturalmente alla sola componente del consenso nelle relazioni di potere e controllo. L’altra, quella della repressione, che è fondamentale, non fa parte della materia di cui  oggi si discute.
La Chiesa cattolica, che non è una corrente politica ma un’istituzione  politicamente molto attiva, ha sempre utilizzato una combinazione tra l’una e l’altra cosa, tra miracoli e opere caritative, processioni e mense popolari, evangelizzazione e assistenza ad  ammalati e affamati. La borghesia, che è stata una classe particolarmente capace di agire politico, ha fondato  nel XVIII secolo il concetto di laicità, è stata sostegno sociale delle correnti di pensiero liberali e ha combattuto le superstizioni popolari, finché ha avuto bisogno della radicalità delle classi subalterne per combattere l’aristocrazia e la monarchia assoluta. Quando poi è diventata classe di potere, si è spogliata degli abiti liberali e si è appoggiata a ideologie, partiti, istituzioni conservatrici e illiberali.
 I partiti liberali in Italia, cioè quelli che più immediatamente rappresentavano le oligarchie economiche urbane, si sono stabilmente alleate con i cattolici quando si è trattato di combattere il movimento operaio e le sinistre radicate nelle classi subalterne.
Nel 1913 con il Patto Gentiloni (da Vincenzo Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione elettorale cattolica) i cattolici si impegnano a sostenere i candidati liberali in cambio della difesa dell’insegnamento religioso, della scuola privata confessionale e della “integrità della famiglia”, che in questo caso significa chiusura a ogni possibilità di introduzione del divorzio.
Dopo il fascismo i liberali, cioè due piccoli partiti (il PLI e il PRI), hanno governato a lungo e in posizione del tutto subalterna con il partito cattolico scomparso all’inizio degli anni Novanta,  la Democrazia cristiana, che ha resistito tenacemente e fino all’ultimo alla legge che istituisce il  divorzio  e a quella  che rende legale l’aborto.
La destra degli anni Venti e Trenta, quella clericale e fascista, nascerà dal bisogno delle oligarchie di potere di forme della politica più capaci di quelle liberali di  garantire il sostegno popolare e arrestare l’ascesa del movimento operaio di ispirazione marxista. E’ vero che quella destra punterà prima di tutto sulla repressione, ma è anche vero che sperimenterà nuove forme di consenso. Il liberalismo infatti, coniugando la laicità con la strenua difesa del mercato, non dispone  autonomamente di possibilità di contatto con i più ampi settori popolari. Lascia le loro condizioni di vita in balia di dinamiche economiche che possono diventare spietate con coloro che sono socialmente più deboli; li priva dell’oppio dei popoli e della sua funzione lenitiva e consolatoria.
Un mio omonimo, Domenico Cirillo, finì sulla forca dopo la rivoluzione napoletana del 1799 per avere toccato ai “lazzaroni” san Gennaro e la Madonna, senza aver avuto prima il tempo, la forza e la lucidità per proporre qualcosa d’altro in cui valesse la pena di sperare.
Il fascismo europeo riprende dalla Chiesa cattolica le forme di potere e controllo in una nuova e diversa combinazione tra repressione, evocazione di fantasmi e fobie e opere assistenziali assai modeste, ma che comunque rappresentano qualcosa di più rispetto all’avarizia del vecchio liberalismo. Con le superstizioni popolari il fascismo ha un duplice rapporto, di alleanza e di imitazione. Dal primo fascismo anticlericale e che voleva “svaticanare” l’Italia ai patti del Laterano dell’11 febbraio 1929 è possibile individuare una dinamica abbastanza lineare di sostegno reciproco tra politici fascisti e burocrazia vaticana.
Ma l’osservazione più interessante è un’altra. Il fascismo tedesco, cioè il nazismo, ripropone come capri espiatori le stesse categorie di persone che il clero cattolico aveva elevato al rango di nemici: gli ebrei, gli omosessuali e gli eretici, coloro che criticano un ordine costituito, nel XX secolo socialisti e comunisti. Le radici cristiane sono anche queste, cioè il radicamento profondo nella cultura orale popolare di luoghi comuni che si ripetono all’infinito come proverbi o giaculatorie, senza mai essere sottoposte a critica o a verifica.  L’antigiudaismo, nelle forme specifiche dell’antisemitismo e come contenuto di linee politiche, si afferma quando politici conservatori si accorgono che nei comizi le imprecazioni contro gli ebrei suscitano l’entusiasmo popolare e che il rancore nei confronti dei ricchi può essere dirottato verso le comunità ebraiche europee.
Per evitare immagini semplificate del ruolo della Chiesa cattolica nella cultura europea, aggiungerò che radici cristiane non significa solo questo. Anche le narrazioni dei soggetti di liberazione, compreso il marxismo di Marx, sono debitrici a schemi di pensiero cristiani. Anzi, se c’è qualcosa a cui il movimento operaio di ispirazione marxista può essere vagamente paragonato, è proprio la Chiesa cattolica: una narrazione salvifica, il cristianesimo delle origini; aspettative e bisogni di larghissime masse popolari; una burocrazia repressiva, accentratrice e autoritaria, che non può convivere con  la critica; la tendenza permanente a generare eresie, legate al contrasto tra narrazioni e aspettative popolari da una parte e pratiche e moventi all’agire burocratici dall’altra.
Il compromesso tra gruppi di potere non si è realizzato  solo con l’alleanza tra alte gerarchie vaticane, oligarchie economiche e un liberalismo che ha perduto se stesso.
In Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa orientale a dominazione burocratica le Chiese ortodossa e cattolica sono state le uniche forme organizzative e culturali a cui sia stata lasciata la possibilità di sopravvivere. Con pochissime eccezioni, la persecuzione “comunista” dei cristiani è una leggenda, anche se un ridimensionamento del potere economico dei cleri e della loro influenza è stato l’ovvia conseguenza  della diversità dei rapporti economici e sociali. Il ruolo politico attuale della religione, anche in quei paesi, è l’effetto di questo tipo di scelta, cioè della repressione di ogni altro marxismo che non fosse ideologia del potere  e di ogni altra possibilità di critica che non fosse quella  del clero.  Così, per una di quelle deformazioni d’ottica proprie delle relazioni di potere, è apparso avversario chi era riuscito comunque a convivere  con il regime burocratico e non abbastanza avversario chi non aveva potuto assolutamente convivere, cioè il marxismo democratico e libertario.
In Italia l’alleanza tra due burocrazie, quella vaticana e quella di un partito comunista di osservanza staliniana, ha congelato a lungo i processi di laicizzazione. E’ stato necessario il movimento rivoluzionario del 1968- 1977 perché possibilità niente affatto rivoluzionarie come il divorzio, la contraccezione e l’aborto legale entrassero a far parte del costume nazionale.
L’esigenza oggi di riesumare vecchie superstizioni che sembravano superate è legata a un contesto in cui si combinano interessi delle oligarchie economiche, di ceti politici e istituzioni conservatrici. E se l’antigiudaismo sembra per ora improponibile (ma tutt’altro che  dissolto) e di eretici autentici ce ne sono pochissimi in giro, l’omofobia  si rivela più radicata e diffusa di quanto pensassimo. Anche perché essa viene autorizzata e radicalizzata dai discorsi dei media e di esponenti politici  e religiosi.
Vediamo ora attraverso quali dinamiche si manifestano a destra nuove tendenze omofobiche e si rafforza a sinistra la resistenza al riconoscimento di gay, lesbiche e trans.  Prima di tutto il bipolarismo e la presenza di cattolici in entrambi gli schieramenti concede alla burocrazia vaticana un potere di condizionamento politico forse senza precedenti dopo la rivoluzione borghese. In secondo luogo la distanza dei partiti della sinistra dai settori popolari che in passato organizzava, la loro mancanza di radicamento sociale  danno alla Chiesa cattolica la possibilità di riempire un vuoto.  La Chiesa cattolica dispone di strutture organizzative capillari e diffuse sull’intero territorio nazionale, attraverso la quale mantiene contatti  con la società profonda. Utilizza con sapienza il potere della televisione, che per altro dimostra nei suoi confronti un  servilismo senza limiti. Gode di un prestigio legato alle sue opere caritative e assistenziali in un contesto in cui i partiti appaiono sempre più incapaci di garantire qualcosa a qualcuno e attenti soprattutto a interessi di casta.
Ma c’è una ragione più di fondo che rende attuale un rapporto tra politica e classi subalterne fondato sulla sollecitazione di inquietudini, insicurezze e paure.
Il periodo che stiamo attraversando, la cosiddetta globalizzazione,  è caratterizzato da un’accentuata precarizzazione del lavoro subalterno, arretramenti sul piano dei diritti sindacali, da un complessivo indebolimento del welfare e dall’esigenza di sfruttamento di una forza lavoro immigrata e priva di diritti, la cui presenza è destinata a creare degrado,  tensioni e paure.
Il governo Prodi ha conosciuto dopo la finanziaria un vero e proprio crollo di popolarità, ma qualcosa del genere avvenne anche al primo governo Berlusconi per ragioni della stessa natura. Le oligarchie economiche italiane pensano di avere ormai un problema grave di governabilità: i partiti di destra e di sinistra hanno remore e limiti nel prendere tutte le misure che esse ritengono necessarie per costruire l’Europa dei banchieri e degli industriali inserita nei processi di globalizzazione.  Fobie, fantasmi, superstizioni, bisogno di capri espiatori tornano a rappresentare ingredienti fondamentali della conservazione sociale e della politica.

Sarà forse più facile adesso comprendere perché i partiti italiani agiscono in un certo modo o in un altro; per quali motivi il lesbismo, l’omosessualità, il transgenderismo  sono diventati tema e problema delle istituzioni. Ha circolato per un po’ negli spazi queer l’idea che aperture e chiusure fossero trasversali e che la sinistra non fosse meno omofoba della destra. Sono stati ricordati gli anni di carcere previsti per gli omosessuali nei regimi “comunisti”, la coerenza nella lotta contro l’omofobia del Partito radicale, oggi nell’alleanza di centro sinistra ma ieri in quella di centrodestra. Questa idea è del tutto falsa, soprattutto se ci si intende su che cosa significa destra e sinistra. La risultante legislativa può anche essere un nulla di fatto per il governo di centrosinistra come per il governo di centro destra, ma alle spalle delle due coalizioni ci sono comunque due mondi, due culture, due sistemi di valori profondamente diversi.
Partiamo dalla destra estrema: Forza nuova  aggredisce le manifestazioni in stile squadristico; organizza atti di violenza contro singoli gay, lesbiche  o trans; chiama il Pride “sfilata di invertiti” e gli orientamenti diversi dall’eterosessualità “veleno morale”.
Tra questa destra e quella in doppio petto, che sembrava aver subito negli ultimi anni qualche piccolo fenomeno di civilizzazione, ci sono legami rappresentati talvolta da singole personalità o da un intero ambiente sociale.
Borghezio della Lega coniuga l’omofobia con l’antisemitismo e la virulenza anti-islamica  e si proponeva di fondare una Chiesa del Nord lefebvriana.
Prosperini  di Alleanza Nazionale, che è stato anche assessore ai giovani della regione Lombardia, dice che sui gay bisognerebbe gettare il napalm  oppure garrotarli, ma non alla maniera di Franco, alla maniera degli Apaches o almeno a quella che Prosperini attribuisce agli Apaches. Un laccio di cuoio bagnato intorno alla gola si asciuga al sole, restringendosi e strangolando lentamente la vittima, finché il cervello le scoppia.
Calderoli parla di “atti contro natura” e fa sfoggio di un’omofobia ossessiva e sospetta.
La aperture di Gianfranco Fini  e Silvio Berlusconi sono state sopravvalutate dalla stampa per la confusione tra matrimoni, Pacs, Unioni civili, diritti individuali ecc. e perché poi ciascuno utilizza i termini a modo proprio. Nessun partito della destra e nessuno/a che davvero conti al suo interno si spinge oltre il limite posto da Ruini e Bagnasco.   La posizione della burocrazia vaticana  è in proposito molto chiara : nessuna legge  e le cose restino come sono. Per la logica del “minor danno” poi è disponibile ad accettare diritti individuali che non comportino alcuna forma di riconoscimento della coppia. Secondo le ultime notizie si starebbe discutendo nella seconda commissione Giustizia la proposta dell’ex-liberale e oggi forzista Alfredo Biondi, che aveva detto qualche tempo fa di essere stanco di avere sempre “i vescovi nel letto”. La mediazione (ma quale mediazione poi?) sarebbe la rinuncia a qualsiasi riconoscimento pubblico e l’incarico a un notaio di benedire le coppie di fatto con alcuni diritti legati soprattutto alla successione.  Singole persone hanno atteggiamenti più laici, ma si tratta di omosessuali come Cecchi Paone oppure ex socialisti ed ex liberali, appunto come Biondi, finiti per bieche ragioni di interesse ancora una volta in un’alleanza confessionale.. Talvolta si tratta di aperture strumentali con l’obiettivo di lasciare uno spiraglio a settori di elettorato laico, secondo una vecchia tattica adottata dai liberali nei confronti del movimento per il suffragio alle donne. I partiti nel loro complesso erano contrari , ma singoli  tendevano le mani a frange di elettorato maschile influenzati dalle pressioni femministe. Vittorio Sgarbi  partecipa a uno dei primi Pride, si fa fotografare, saluta a destra e a manca. Poi in una trasmissione, in cui per qualcosa perde le staffe, urla trenta volte la parola “culattone” come il peggiore degli insulti.
La destra italiana nel suo complesso ha fatto comunque da anni una scelta di cristianizzazione elettorale: Forza Italia si è levata di dosso la leggera vernice liberale; la  Lega ha abbandonato un certo paganesimo d’accatto; Alleanza Nazionale ha ritrovato in un nuovo implicita patto con la burocrazia vaticana le sue origini fasciste.
 La sintonia tra destra e burocrazia vaticana ha ragioni anche congiunturali: oggi la Chiesa è diretta da uomini (cioè persone di sesso maschile) appoggiati da formazioni integraliste. Per esempio dall’Opus Dei, che ha sostenuto Hiler, Franco  e Pinochet; da Comunione e Liberazione, dalla Compagnia delle opere e dall’ Ordine dei Cavalieri di Malta, i cui nemici tradizionali sono i “cristomarxisti”, il mondo islamico,  le “lobby ebraiche”, gli omosessuali e gli “abortisti”.

Per quanto riguarda la sinistra, bisogna prima di tutto registrare un paradosso. La sua base elettorale stabile, quella cioè con forme di cultura di sinistra, è molto meno omofobica, meno superstiziosa e meno incolta. Al suo interno è cresciuta negli ultimi anni la consapevolezza dell’importanza della lotta per i diritti del persone con orientamenti diversi da quelli eterosessuali. D’altra parte la risultante  sarà per il governo Prodi non molto diversa da quella del governo Berlusconi: nulla di fatto o al massimo l’incredibile proposta del notaio officiante e di una legge ad uso di Dolce e Gabbana. Le ragioni sono complesse e a volerne anche solo accennare si aprirebbe una parentesi troppo ampia.
Il centro- sinistra confina con l’integralismo cattolico nel territorio della Margherita, in cui abita quella Paola Binetti  legata all’Opus Dei  e di cui si dice che porti il cilicio. La battuta  di  Grillini in proposito merita di essere ricordata : non ho nulla contro il sadomaso, ma che lasci agli altri il diritto a diverse preferenze. Nello stesso territorio abita anche Rosy Bindi, che ha tentato la mediazione impossibile tra laicità e integralismo cattolico con la proposta dei Dico. Nel  congresso del partito, che si è tenuto nel mese di aprile, sono stati approvati sia la mozione di adesione al Family Day  contro i Dico (presentatori i teo-dem Enzo Carra e Luigi Bobba), sia l’ordine del giorno a sostegno dei Dico.  Sembra che la polemica tra le due anime del partito sia stato l’unico momento di vivacità e di rapporto autentico del congresso  con le cose che avvengono nel resto del mondo.
Il centro sinistra confina poi con la laicità nei territori dei partiti di discendenza marxista e nel liberalismo coerente del Partito radicale. A questo punto è necessario aprire una parentesi. A persone come me, con una lunga storia in un’area di ispirazione marxista, viene talvolta ricordato che nei paesi “comunisti” per gli omosessuali erano (e sono) previsti anni di carcere. La polemica si basa sull’identificazione marxismo/socialismo/comunismo  con  lo stalinismo.  Sarebbe invece utile ricordare alcuni particolari, per esempio che la Costituzione sovietica del 1918 è tra le prime a depenalizzare le pratiche omosessuali, in un contesto di leggi e misure che raccolgono le rivendicazioni più avanzate dei movimenti di donne  e della grande ondata
femminista a cavallo tra XIX e XX secolo. Kate Millet, una femminista statunitense, nel suo libro “La politica del sesso”, sottolinea la differenza (anzi il vero e proprio rovesciamento) tra la prima fase della vita dell’Unione sovietica  e quella successiva, quando una burocrazia di potere rappresentata dalla persona di Stalin si è ormai affermata. Non solo le pratiche omosessuali, ma anche l’aborto diventeranno di nuovo reato; si affermerà una logica familistica simile a quella del fascismo; l’autorganizzazione delle donne verrà bruscamente spezzata, malgrado le proteste e l’opposizione di  Clara Zetkin.
E’ vero che questo rovesciamento ebbe anche ragioni obiettive nelle difficoltà dell’ URSS e nel contrasto tra le aspirazioni libertarie e l’immenso e primitivo mondo rurale ereditato dalla società zarista.  La ragione di fondo fu però nel riprodursi di una relazione  oppressiva di potere  tra una parte dominante della società (appunto, la burocrazia) e tutto il resto del corpo sociale, in cui bisognava spegnere il più possibile la capacità di critica. Nella sinistra di genealogia marxista si trovano quindi non a caso le proposte più avanzate, anche se c’è una certa differenza tra quelle elaborate prima e dopo l’ingresso al governo. La proposta di cui  è prima firmataria Titti De Simone, presentata il 2 agosto 2006, distingue tra matrimonio e famiglia e si propone di regolamentare le forme di famiglia diverse da quella fondata sul matrimonio. Tuttavia i diritti delle coppie dello stesso sesso sono poi uguali a quelli delle coppie eterosessuali.
Lo stato di parte dell’unione civile è titolo equiparato a quello di membro della famiglia, i figli nati durante l’unione hanno i diritti di quelli nati nel matrimonio, si può accedere all’affidamento e all’adozione a parità di condizioni,  i diritti sono equiparati su tutti i piani (della successione, fiscale, previdenziale, pensionistico, di risarcimento del danno in caso di decesso causato da fatto illecito ecc.). Simile a questa è l’altra proposta di parlamentari di Rifondazione, di cui prima firmataria è Maria Luisa Boccia.
Liberazione, il quotidiano del PRC, si è distinto per posizioni  sul tema degli orientamenti sessuali assai avanzate e soprattutto aggiornate, cosa che prova l’esistenza di un interesse reale. Titti De Simone e Vladimir Luxuria sono state elette nelle liste del partito e sono con Franco Grillini  (ex-sinistra DS) i più visibili nel parlamento italiano. L’obiezione che si può fare a Rifondazione non è secondaria: su questo tema, come su molti altri (la guerra, le condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici, il rapporto con i  movimenti ecc.) è quella della  distanza abissale tra le parole da una parte e le pratiche e i risultati dall’altra. Ma  qui si aprirebbe un discorso troppo complesso e fuori dal tema di questa relazione. Vedremo se Rifondazione si mobiliterà davvero per il Pride o se si limiterà a mandare una delegazione, sia pure folta. L’associazione Sinistra critica, nata come minoranza nel VI congresso del PRC si è mossa in questi mesi  perché il Pride sia la vera risposta al Family Day e sarà presente in diversi spezzoni del corteo, oltre che con simboli propri.  
La realpolitik ostacola anche la maturazione di una posizione  per quel che riguarda i  DS. All’interno di questo partito ha avuto luogo il percorso del  Gayleft  che ha raccolto l’eredità del vecchio Coordinamento degli omosessuali. Zapatero  è il mito, la Sinistra giovanile e le femministe le relazioni interne privilegiate e i sostegni.
Anche in questo caso la realpolitik consente un ben magro bilancio, ma non solo dal punto di vista delle pratiche e dei risultati, ma anche dal punto di vista dell’accettazione delle rivendicazioni GLBT. Fassino ha precisato di recente che famiglie sono solo quelle eterosessuali e il suo partito ha accettato la  Conferenza sulla famiglia, la sua logica e le sue esclusioni. Anche i Ds hanno un problema di rapporto con le superstizioni popolari, che risolvono con l’omissione, avendo rinunciato a risolverlo nel modo in cui sarebbe necessario e possibile. In un intervento nell’assemblea nazionale del 3° congresso del partito (febbraio 2005)  Andrea Benedino  di Gayleft segnala che i manifesti per la campagna sui Pacs, promossa dai dipartimenti giustizia e welfare del partito, in molte federazioni non sono stati attaccati. Non per caso  nella  marcia verso la fusione con la Margherita i DS perdono il presidente dell’Arcigay Franco Grillini.
Vorrei concludere con alcune osservazioni sul Partito radicale, che forse renderanno più chiara la tesi di fondo di questa relazione. I radicali sono stati i primi e tradizionalmente anche i più decisi nella lotta contro la superstizione omofobica e per la laicità. Nel 1967, cioè in un tempo politicamente lontano e in cui questa tematica era del tutto rimossa, due convegni su clericalismo e sessuofobia, al cui interno c’è anche la tematica omosessuale, testimoniano l’internità della polemica anticlericale al progetto radicale. Il Partito radicale gioca dopo il ‘68 un ruolo specifico nella radicalizzazione politica del paese, coprendo un terreno che la sinistra per ragioni diverse lascia scoperto, il PSI per l’alleanza di governo con la Democrazia cristiana, il PCI per la sua cultura  poststaliniana. Le iniziative sul divorzio e sull’aborto e il rapporto con il primo nucleo visibile del movimento omosessuale, il Fuori , danno una forte caratterizzazione al lavoro politico dei radicali.
Questo partito tuttavia non è in grado di garantire diritti e processi ampi di laicizzazione. Negli anni Settanta, sia pure con difficoltà e mediazioni al ribasso (vedi la legge 194 sull’aborto) furono la spinta dei movimenti popolari e la tardiva assunzione di responsabilità del PCI a battere l’integralismo cattolico, come sempre assolutamente intransigente su un tema e sull’altro. Il limite del Partito radicale è quello del vecchio liberalismo, che fu poi costretto a scegliere tra coerenza con se stesso e capacità di arginare il movimento operaio organizzato in partiti socialisti o comunisti. Coniugare laicità e religione del mercato significa essere due volte distante dalla vastissima parte di popolazione che sgobba per l’intera giornata e fatica ad arrivare alla fine del mese.
La lotta contro le superstizioni popolari, di cui l’omofobia e l’eterosessualità obbligatoria sono  espressioni, passa necessariamente per una crescita culturale diversa da quella prodotta dai processi di scolarizzazione per altro assai lenti e contraddittori.
Solo se l’incontro con la cultura laica e gli/le intellettuali che ne sono portatori avviene in  forme di organizzazione  popolare in grado di affrontare  i problemi della vita quotidiana (il salario, la pensione, la salute, la casa, i trasporti ecc.) la laicizzazione è  possibile. La storia ci lascia moltissime testimonianze dell’impotenza di una laicità e di una razionalità che considerino  laico e razionale il dominio di classe e le logiche distruttive di un mercato lasciato a se stesso.
Si aprirebbe a questo punto un altro capitolo, quello delle superstizioni popolari diverse da quella religiosa: la bontà insostituibile del mercato o, al contrario, l’abolizione del mercato come soluzione di tutti i problemi; il partito degli illuminati detentore per definizione della verità ecc. Ma  sarei fuori dal tema che mi è stato assegnato. Una sola cosa, brevemente. Il problema non ha altra soluzione, nei limiti in cui una soluzione è possibile, che l’esercizio permanente dello spirito critico di massa, cioè la democrazia e una democrazia non formale, ma in cui  il proletariato, il popolo, la “moltitudine” – o come ciascuna preferisce dire – non deleghino ma pensino e agiscano per sé.
   

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presentazione del tavolo

"Media, linguaggi ed immaginari.
Strategie e pratiche di autorappresentazione e riappropriazione dei mezzi
di comunicazione e dei linguaggi"

Il tavolo verrà co-gestito da feramenta e enza panebianco.

feramenta è una rete di donne che da tre anni lavora su condivisione di
saperi, freesoftware, immaginario e identità di genere.

enza panebianco è redattrice di "femminismi a sud", un blog di espressione e
analisi politica femminista.

Il tavolo verrà focalizzato sull’autorappresentazione e sugli strumenti
del comunicare in rete.

Abbiamo ragionato su come impostare il tavolo e siamo arrivate alla
conclusione che parlare dell’attacco alle donne attraverso i media
piuttosto che dell’oggettivazione del corpo delle donne nella televisione
e nella pubblicità o della violenza mediatica in generale è un approccio
generalista e in un confronto ampio è difficile condurre la discussione
verso approdi comuni diversi da quelli di partenza, che ci vedono già
tutte d’accordo.
Ci siamo quindi proposte per introdurre il tavolo a partire dai nostri
percorsi politici fondati sulla riappropriazione, la condivisone e
l’autorappresentazione dandogli un taglio molto pragmatico.
La seconda parte del tavolo avverrà infatti sotto forma di workshop.

I PARTE

Intro:

che cosa è e come si radica il gender divide.

la riappropriazione: dal cyberfemminismo agli eclectictechcarnival

l’autodeterminazione e l’uso della tecnologia

uso consapevole della tecnologia
(spazi liberati, free software, comunità virtuali)

DISCUSSIONE APERTA

II PARTE

Spazi liberati nella rete

Comunicare tra noi:

la mailing list come assemblea virtuale
(come si apre, come si gestisce, come ci si autogestisce, la netiquette)

Comunicare all’esterno:

Il blog
(come si apre, come si gestisce, cosa vuol dire autorappresentarsi e come si
comunica in un blog)



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Introduzione di Emergenza Femminista

Introduzione
Da sempre, la “visibilità” delle donne attraverso cortei e manifestazioni è stata una pratica del movimento femminista, anzitutto per manifestarsi come soggetto politico. Negli anni Settanta le donne scendevano in piazza dopo lunghi periodi di riflessione, di dibattiti, di lavoro sociale concreto, di pratiche collettive, e su questo fondamento certo è nato quello che rimane uno dei più importanti e originali movimenti del Novecento: il femminismo.
In questi anni, l’aver anteposto la “visibilità” come dato politico ha condotto invece a un’assenza di analisi sulle implicazioni dell’uscita pubblica delle donne. Non si è cercata la risposta a domande quali: Siamo soggetto politico? Dove si fonda tale soggettività collettiva? Cosa implica aprire una rivendicazione trovandosi al fianco anche di organizzazioni istituzionali? Quanto siamo in grado di mantenere una nostra autonomia di pensiero e di pratica politica? Non si corre forse il rischio di appiattire le differenze politiche, culturali, generazionali?
Perciò abbiamo sostenuto la due giorni, perché sentivamo la necessità di una riflessione collettiva su questo ordine di problemi. Infatti, il concetto di autonomia, anche negli ambiti del movimento lesbico e femminista, non ci garantisce l’estraneità da un processo di “semplificazione” da soggetto politico rivoluzionario a forza sociale che si limita a specifiche richieste di “diritti”.
Alcuni esempi. Nella grande manifestazione del 3 giugno 1995 a Roma le problematiche femministe furono scavalcate dalle questioni di politica interna nel clima delle imminenti elezioni: al bersaglio fondamentale (gli attacchi clericali alla legge 194) si sostituì il governo Berlusconi e la Destra che avanza, espropriando e annullando le migliaia di voci di donne e lesbiche che manifestavano. Ed è passato sotto silenzio che proprio la Sinistra aveva riproposto (con Ochetto prima e con D’Alema poi) la questione etica dei “diritti dell’embrione”, gareggiando già allora con la Destra nell’arrendevolezza alle gerarchie vaticane.
Il 14 gennaio 2006 a Milano la manifestazione indetta contro gli attacchi alla legge 194, ancora una volta nell’imminenza delle elezioni politiche, segna però un’inversione di tendenza. Il corteo aperto dalle più anziane, che reggevano lo striscione “Siamo uscite dal silenzio”, si chiudeva con lo spezzone delle più giovani con l’opposto slogan “Mai state zitte”. Le parole d’ordine di quel corteo andavano decisamente oltre la legge 194 e ricordavano molto quelle degli anni Settanta perché ricomprendevano la questione dell’aborto dentro il vissuto quotidiano delle donne: dal lavoro alla famiglia, dai rapporti con l’altro sesso alla politica in generale. Le donne a Milano hanno affermato che era ora di riorganizzarsi e di riprendere in mano il proprio destino. Proprio il tema del salario, del precariato, del lavoro di cura si è imposto con forza negli slogan, nei cartelli, nei volantini. Si è riconosciuto che il carattere astratto e vuoto della legalità borghese e della delega istituzionale apre nuove possibilità di analizzare i luoghi che le donne occupano realmente e di lottare a partire da essi, individuando alternative politiche che mettano in crisi l’attuale modello sociale.
Quella del 14 gennaio 2006 rimane una data importante perché segna una prima pubblica frattura tra le donne istituzionali e una nuova soggettività che pone il carattere antiistituzionale della politica femminista come discriminante imprescindibile: la manifestazione ha strappato il fitto velo di discorsi artificiosi ed elitari che proclamavano la raggiunta eguaglianza tra i sessi, denunciando le nuove forme strutturali della discriminazione e del sessismo. Vi è stata insomma la capacità di riconoscere che i processi di precarizzazione del lavoro femminile sono il fulcro materiale del rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne – e che la soluzione non va cercata in una falsa coesione, ma nelle lotte, nel conflitto sociale.
Il 24 novembre 2007 centocinquantamila donne invadono Roma, calate da ogni parte d’Italia. Sono operaie, precarie, disoccupate, casalinghe forzate e rottamate. Un corteo di donne per le donne. La forza di quella manifestazione è quella di aver coniugato il tema della violenza a tutto campo (nella famiglia, nel lavoro, nelle politiche securitarie e xenofobe) proponendo uno sguardo complessivo e non settoriale e mistificante. La gestione orizzontale, dal basso, ne ha determinato anche la portata antiistituzionale e non soltanto per la cacciata delle ministre dal palco, quanto piuttosto per la “cacciata” dalla piazza dell’illusione che la violenza possa essere contrastata mediante leggi securitarie e politiche familiste. Per noi oggi la discriminante antiistituzionale risulta un fondamento irrinunciabile delle pratiche femministe, mentre il separatismo resta una questione aperta su cui occorre riflettere a partire dalle proprie specifiche situazioni. Crediamo tuttavia che ancora oggi vi sia la necessità di percorsi autonomi e separatisti del movimento di liberazione della donna per non essere più subordinate né a ideologie femminili o maschili, né ad analisi e linee politiche precostituite. Si tratta di elaborare un nostro discorso indipendentemente dai tempi e modi della politica istituzionale che strumentalizza ciclicamente la forza di mobilitazione delle donne soltanto per servirsene in campagna elettorale. Di là dalle grandi manifestazioni (nel 1995, nel 2000, nel 2006 e ora l’8 marzo 2008, sempre in concomitanza con l’apertura di una campagna per le elezioni politiche), occorre dare continuità alla riflessione, alla critica, alla sperimentazione, alle pratiche, all’autonomia delle donne.
I due anni intercorsi tra la manifestazione del gennaio 2006 e quella del novembre 2007 hanno segnato un forte cambiamento: a differenza delle altre manifestazioni questa era autorganizzata, separatista, antiistituzionale. Questo tipo di pratica politica e questi contenuti non sono nati dal nulla, ma dalla consapevolezza, ormai collettiva, che niente può più essere delegato: “non in nostro nome”. Ce lo impone la situazione attuale: il fallimento delle politiche istituzionali, la violenza crescente contro le donne, la crisi economica e politica che spinge verso una ricomposizione autoritaria della famiglia come unità economica. Proprio la difficoltà delle giovani donne, e ancor più delle donne con figli, nel reperire un lavoro stabile e il difficile accesso a beni fondamentali come la casa e i servizi sociali hanno coagulato la rabbia delle donne che non hanno più sentito il loro disagio come condizione individuale, ma come una dimensione collettiva, come un attacco a quei percorsi sociali che avevano portato a rompere con un privato di isolamento e alienazione. L’autonomia delle donne, i processi di socializzazione, l’autodeterminazione nelle scelte di vita sono emersi con fermezza dinanzi al tentativo di restaurare la famiglia come unità base dell’esistenza. È stata una risposta forte. Esattamente quello che le donne istituzionali non possono fare, perché non hanno più come riferimento la condizione reale delle donne e del posto che occupano nel lavoro, nella famiglia e nella società. Da sempre il movimento femminista ha posto come questione principale l’analisi della specifica condizione di sfruttamento e oppressione della donna. Parlare di lavoro non vuol dire quindi privilegiare o escludere altre questioni. Vuol dire esaminare la realtà per costruire insieme soggettività sociali certe che possano dare concretezza e continuità a una cultura politica alternativa. Occorre iniziare un percorso di analisi che possa dare indicazioni pratiche affinché ognuna sappia meglio come procedere, ognuna col suo contributo e le sue strategie.

La “produttività” delle donne
Prima degli anni Settanta le analisi sociologiche del mercato del lavoro, pur dando visibilità al ruolo delle donne, si sono basate su categorie apparentemente “neutre” senza considerare affatto il lavoro domestico. Ma lungo gli anni Settanta il movimento femminista ha messo in crisi le riduttive griglie teoriche del sociologismo marxista mettendo all’ordine del giorno la dimensione sessuata dei rapporti sociali. E oggi, volendo indagare la situazione delle donne nel quadro della produzione per individuare le trasformazioni avvenute, è a questa irreversibile rottura teorica che bisogna rifarsi.
Vari sono i concetti di “produttività” che il movimento femminista ha elaborato a partire da differenti linee di ricerca. Tuttavia si possono ridurre essenzialmente a due: 1) un concetto che, ancorato sul terreno teorico della dottrina marxista, cerca di coniugare femminismo e lotta di classe; 2) un concetto che, legato a un approccio materialista che si avvale anche di strumenti analitici marxiani, tende a considerare la specificità dello sfruttamento femminile. Nel primo caso il “nemico principale” viene individuato nel capitalismo; nel secondo, risulta invece il patriarcato. Ma di fronte a queste due diverse impostazioni va sottolineato che entrambe hanno affrontato il lavoro domestico in termini di lavoro produttivo segnando decisamente un passo avanti.
Questa problematica fu dibattuta per la prima volta da quel settore del movimento femminista che si era definito “Comitato veneto per il Salario al lavoro domestico”. “In Italia – ricorda Maria Rosa Dalla Costa – il lavoro domestico, oltre che un discorso e un momento di vivacissimo dibattito all’interno del movimento aveva costituito il fulcro di un coacervo di lotte e mobilitazione in anni in cui si muovevano con forza settori fondamentali della società”. Fu un dibattito che travalicò i confini italiani ed ebbe l’esito di porre il lavoro domestico in rapporto al capitalismo come nodo cruciale per analizzare la subalternità sociale delle donne in termini di sfruttamento. La battaglia si presentava su due fronti principali: quello domestico e quello pubblico. Si trattava di attaccare le strutture oppressive all’interno della casa e di rimuovere le barriere discriminatorie al suo esterno. In entrambi i casi ciò implica di affrontare anzitutto la divisione sessuale del lavoro e i suoi effetti sociali, dimostrando il nesso tra la sfera domestica e quella pubblica.
Il fenomeno del lavoro part-time, del lavoro nero, del lavoro sottopagato esiste proprio per la posizione contraddittoria delle donne che si trovano tra la sfera della produzione e quella della riproduzione, e che si presume debbano essere in relazione di dipendenza da un salario maschile. La difficoltà di organizzarsi con successo contro queste forme di sfruttamento capitalistico, insieme alla passività o addirittura alla resistenza del movimento sindacale a maggioranza maschile, ha portato al perpetuarsi delle pratiche discriminatorie contro le lavoratrici, malgrado alcune leggi che avrebbero dovuto ridurre o abolire le disuguaglianze.
Guardiamo ai provvedimenti legislativi. Del 1977 è la legge sulla “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, del 1984 la Commissione Nazionale Parità, del 1990 il Comitato Pari Opportunità. Tuttavia, i dati aggiornati al 2003 dimostrano come nella contrattazione collettiva il tema delle pari opportunità sia quasi del tutto assente. Ad esempio su un totale di 1653 accordi aziendali siglati dalle parti sociali in una regione “avanzata” come l’Emilia-Romagna tra il 1998 e il 2002, le intese che contengono un riferimento alle pari opportunità sono 135: il 92% degli accordi sottoscritti non considera la condizione lavorativa specifica della donna. Eppure degli attuali iscritti e delegati della CGIL la metà sono donne. Né le leggi incidono sul fenomeno del cosiddetto “soffitto di cristallo”: il fatto che nei diversi livelli le donne sono comunque sottomansionate. Per le qualifiche più elevate, gli uomini sono nel 19% dei casi capireparto o dirigenti, le donne lo sono solo nell’8% dei casi. Nei consigli d’amministrazione aziendali le donne rappresentano il 5% contro un 95% di uomini. Nei livelli più bassi, il 14% degli operai è specializzato, fra le operaie solo il 6%, mentre la componente femminile si addensa nelle fasce salariali più basse (e i dati ufficiali sottostimano l’ambito, in gran parte femminile, del “lavoro nero”). Man mano invece che aumenta il titolo di studio, cresce la discriminazione sugli incentivi. A parità di lavoro, le donne hanno guadagnato nel 2006 il 9% in meno degli uomini, con una disparità di salario che giunge al 26% in meno per ruoli dirigenziali. In Italia cresce l’occupazione femminile, anzi tra il 1993 e il 2003 le donne rappresentano oltre l’80% dell’espansione occupazionale complessiva, ma sempre in ruoli temporanei e sottopagati. L’esistenza di barriere all’accesso al lavoro è evidente anche nel variare dei tassi di occupazione secondo il numero di figli. E il 20% delle donne occupate non lavora più dopo la nascita del primo figlio. Del resto, l’accesso dei bambini agli asili nido in Italia è del 9% contro il 60% della media europea.
Oggi, quindi, la centralità teorica del lavoro domestico – dalla casa alla cura dei figli e degli anziani – non è soltanto un ricordo del passato: il lavoro domestico è oggi il luogo fondamentale della ristrutturazione complessiva di tutta la società.
Fin dal secondo dopoguerra lo sviluppo del welfare state – e oggi la sua “crisi” – ha prodotto un crescente interesse dello Stato per la famiglia: ciò che in precedenza era vissuto e costruito come “privato” è stato reso, nel welfare state, pubblico e politico. Questo carattere non viene abolito, oggi, dalla “crisi” del welfare state, ma riorganizzato in direzione di un’area di lavori, beni, prestazioni non più “pubblici” né “privati” in senso classico. Associazionismo, volontariato, “sussidiarietà” devono sopperire alla ritirata del “pubblico” e alla crisi dello “stato del benessere”, producendo relazioni e “servizi”, colmando non solo i buchi di bilancio e i tagli di spesa, ma il vuoto di “senso” che colpisce la società del dopo-benessere. In questo processo le donne sono chiamate a un ruolo di primo piano e la famiglia torna ad occupare il centro della scena.
Ma, al tempo stesso, il lavoro domestico risulta un efficace strumento di subordinazione e di selezione del mondo femminile. Da un lato, infatti, la sostanziale ineguaglianza dei ruoli all’interno della famiglia rende vano, in generale, il tentativo di eguagliare gli uomini sul terreno del lavoro, dal momento che essi mantengono sempre il vantaggio di essere liberi dalle incombenze della casa. Dall’altro, trasgredire alla rigida divisione dei ruoli è possibile soltanto a una ristretta minoranza di donne meglio dotate da un punto di vista culturale e sociale. Quindi, volendo parlare di “pari opportunità” anche all’interno dell’universo femminile, siamo ben lontane da una generica promozione di tutte le donne. Anzi, mentre si continuano a emanare leggi sul lavoro di eguale valore, si organizza strutturalmente il lavoro diseguale ignorando – o meglio: volendo ignorare – la condizione di oppressione e di sfruttamento femminile che è “a monte”. Così, al di sotto della “buona coscienza” istituzionale, le disuguaglianze proliferano. Oggi la dominazione maschile non soltanto si maschera dietro a leggi falsamente egualitarie, ma ha bisogno di anestetizzare la coscienza della disuguaglianza. Così la diffusione selettiva di immagini – le fotografie patinate di donne in carriera, gli armoniosi ritratti di donne realizzate, gli idillici quadretti familiari della pubblicità – deve convincere che la parità tra i sessi è ormai raggiunta. Ed è entro questa fondamentale dissociazione tra immagini e realtà che prende forma la violenza maschile come volontà di dominio e sfruttamento.

Le strategie di sottrazione
Un tema molto dibattuto negli ultimi decenni è certo quello del declino demografico. In Italia il coefficiente di riproduzione è il più basso del mondo (oggi circa l’1,4). “Tale abbassamento della natalità ha avuto un peso determinante nel modificarsi della struttura stessa della popolazione in una direzione improduttiva. Al suo interno, ad esempio, la quota degli anziani è sempre più rilevante, mentre decresce a vista d’occhio quella delle nuove leve. Questo invecchiamento della popolazione è una pugnalata al cuore del capitale perché è evidente che da una quota sempre crescente di forza-lavoro esso non può più estrarre plusvalore nel mentre si dilata, di contro, la spesa pubblica” (Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione, Padova, Marsilio, 1981, p. 243). La denatalità e l’invecchiamento della popolazione, moltiplicando i costi (e quindi i tagli) dell’assistenza sociale, ha imposto allo Stato di recuperare la “grande assente”: la famiglia come unità di riproduzione economica. “Le politiche demografiche – osserva Alisa Del Re – non sono un fatto recente: dai tempi più antichi la natalità è stata un problema di stato e ha fatto oggetto di politiche più o meno esplicite nei confronti delle donne”. Oggi come ai tempi dei Romani, con una medesima strategia, “il problema femminile è trattato a livello di massa: si struttura un ruolo omogeneo interclassista, si costruisce la donna-madre, consacrata alla famiglia, alla casa, dipendente dal marito; suo solo e unico dovere la riproduzione della «razza»” (Alisa Del Re, Politiche demografiche e controllo sociale in Francia, Italia e Germania negli anni ’30, in Stato e rapporti sociali di sesso, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 119 e 122). La crociata contro l’aborto, la propaganda contro gli anticoncezionali, la messa al bando dell’omosessualità e del lesbismo, la lotta contro la sterilità, i diversi progetti tesi a incrementare la natalità mediante un sistema di premi e punizioni fiscali sono elementi che già caratterizzavano la politica demografica fascista e nazista, e che tornano oggi, di fronte alla crisi, a riproporsi violentemente nei dibattiti e nelle proposte portate avanti dallo Stato e dalla Chiesa. Ma, osserva ancora la Del Re, negli ultimi decenni “le donne hanno opposto una resistenza precisa sul terreno del lavoro e sulla quantità dei figli prodotti. Hanno accettato il terreno della qualità della riproduzione” (Alisa Del Re, Politiche demografiche e controllo sociale, cit., pp. 144-145). Le donne generano meno figli certamente non per un fattore biologico: in questi anni le donne hanno sferrato un duro colpo sottraendosi silenziosamente al comando di fare più figli e rivendicando nei fatti un’ampia autonomia e libertà di scelta. Meno figli vuol dire meno lavoro domestico e più possibilità di autodeterminare la propria vita.
Inoltre, l’aumento del numero di divorzi, la scelta di molte donne di vivere da sole, le famiglie composte da coppie gay o lesbiche allontanano la famiglia dal suo modello tradizionale. Una famiglia “irregolare” che per lo Stato non è una famiglia e nei cui confronti lo Stato ha come problema aperto quello di ricostruire la capacità del comando sul lavoro domestico e le griglie del controllo complessivo sulle donne e sui bambini.
In questi anni, la crisi occupazionale, il calo della natalità, l’invecchiamento della popolazione e la tendenziale scomparsa della famiglia tradizionale hanno suscitato un’offensiva in grande stile a favore del ritorno delle donne al focolare domestico. Si tratta di una politica “familista” che, sostenuta energicamente dalla Chiesa cattolica, sceglie come bersaglio favorito il lavoro delle donne e, in particolare, quello delle donne sposate con figli.
Ma già negli anni Settanta il movimento femminista denunciava il “lavoro di cura” come lavoro erogato gratuitamente su cui si imbastivano speculazioni e manipolazioni ideologiche. La necessità di soddisfare i bisogni altrui per soddisfare i propri è stata mistificata agli occhi della donna come “amore” perché è una specifica ideologia dell’amore che il capitale ha fondato e sostiene per giustificare il lavoro domestico come lavoro gratuito: “Le cure assistenziali – scrive Giovanna Franca Dalla Costa – appaiono così un corollario conseguente dell’amore, una conseguente espressione amorosa. La mistificazione giunge al punto che si parla anche di uno scambio «vicendevole» di amore, nascondendo dietro l’immagine di uno scambio paritario il fatto che l’uomo acquista la forza-lavoro della donna come sua operaia. Rispetto al tempo il lavoratore libero può godere del resto del suo tempo come «tempo libero». E tale tempo egli consuma in luoghi assolutamente diversi dai luoghi dove svolge il suo lavoro” (Giovanna Franca Dalla Costa, Un lavoro d’amore, Roma, Edizioni delle Donne, 1978, pp. 19 e 21-22).
Con la sua aggressività, la rinnovata campagna “familista” di questi anni dimostra l’importanza centrale del lavoro domestico come luogo di sfruttamento e come area polivalente di forza-lavoro che può continuamente essere rigiocata entro le nuove procedure della flessibilità del lavoro, costringendo le masse femminili alla marginalità, all’insicurezza, alla dipendenza dal salario maschile.
Occorre allora interrogare nuovamente le strategie di sottrazione delle donne, non solo nell’ambito domestico, ma anche nel loro specifico rapporto con il mercato del lavoro.

La rimozione della memoria storica
Separatismo e autonomia sono le pratiche che il movimento femminista ha sperimentato fin dal suo nascere contro l’oppressione specifica delle donne: una pratica tesa ad affermare una nuova coscienza collettiva attraverso il rifiuto preliminare di qualunque mediazione con lo Stato. È stato l’ultimo grande movimento di massa che ha avuto la forza di trasformare dal basso la società, la vita quotidiana, l’universo dei rapporti sociali.
Le “conquiste democratiche” a favore delle donne non furono che un sottoprodotto istituzionale di quella stagione di lotte: era il tentativo di canalizzare, mediare, svuotare le istanze radicali da parte delle organizzazioni femminili dei partiti. Ad esempio, di fronte alla pratica autorganizzata dell’aborto la risposta politica dello Stato avvenne attraverso una legge che riduceva il tema cruciale dell’autodeterminazione a una richiesta particolare nel quadro della tutela della maternità.
Negli anni Ottanta questo stesso ruolo di mediazione col potere si affinava nelle elucubrazioni mistificanti del “pensiero della differenza sessuale”. Attraverso concetti capziosi (autorità, autorevolezza, disparità tra donne, affidamento) le “intellettuali della differenza” teorizzavano l’impossibilità della pratica femminista del partire da sé come dato politico. Ed era una filosofia della delega al femminile che trovava il suo corrispettivo in pratiche quali le “quote di rappresentanza”, il “vota donna”, le “leggi delle donne”, incanalando in tal modo la forza collettiva delle donne in discorsi di “diritti” e “responsabilità” per poter esercitare la “sovranità femminile” nei luoghi di potere. Così, con astruse teorie sul “corpo” e la “mente”, il “pensiero della differenza” dimenticava e faceva dimenticare che il corpo politicizzato è un corpo che lavora, lasciando le donne del tutto prive di strumenti analitici di fronte alla realtà delle discriminazioni e dello sfruttamento quotidiano. Anzi, proprio la destrutturazione della coscienza collettiva delle donne, operata attraverso le speculazioni futili ed elitarie del “pensiero della differenza”, lasciava campo libero alla riproduzione innovativa della disuguaglianza e dello sfruttamento.
Negli anni Novanta il coinvolgimento del pensiero “femminista” negli organi di controllo a livello globale (università, ministeri della famiglia, delle politiche sociali, delle pari opportunità) provoca un’ondata di entusiasmo. Si dichiara a gran voce la “fine del patriarcato”: “Il patriarcato è finito, – si legge in “Sottosopra” del gennaio 1996 – non ha più credito femminile ed è finito. È durato tanto quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare”. In realtà, il successo delle leader del femminismo istituzionale si rivelava ben presto una strategia fallimentare: la “riuscita” di alcune non era che il contrappeso dello sfruttamento di tutte.
Oggi si tratta di recuperare la memoria storica del femminismo e ricordare che esso nasce mettendo in questione proprio il campo del lavoro come base materiale delle disuguaglianze sociali. Oggi, nel tempo del preteso superamento del taylorismo, si deve ribadire che la maggior parte del lavoro femminile continua a essere esecutivo, ripetitivo, standardizzato. E non si può non aggiungere che le forme tradizionali di industrialismo, scomparse o ridotte in Europa e negli Stati Uniti, non si sono affatto dissolte nel nulla, ma sono state esportate nelle periferie e semi-periferie dell’impero.

Un altro sviluppo
Nel mondo attuale si vanno nuovamente espandendo le forme più arcaiche di sfruttamento: il lavoro in schiavitù, l’espropriazione o “privatizzazione” di beni comuni essenziali come la terra e l’acqua, il traffico dei corpi, lo sterminio per fame e guerre di coloro che risultano “inutili” al capitale. Oggi più che mai l’accumulazione di ricchezza genera, all’altro polo della scala sociale, una brutale accumulazione di miseria. E in questi processi le donne si trovano a pagare i costi più alti in termini di povertà, sfruttamento, violenza e morte: costrette a cercare lavoro in modo svantaggiato rispetto all’uomo, restano però comunque responsabili del lavoro di produzione e riproduzione della forza-lavoro.
Di fronte alle contraddizioni drammatiche della nostra epoca, crediamo sia necessario non solo lottare contro l’ingiustizia crescente, ma anche pensare il senso della nostra esistenza e il consenso che diamo ogni giorno, inavvertitamente, a questo modello di sviluppo, a tutto quello che ci hanno fatto credere sia “normale”. Proprio per questo abbiamo bisogno di pensare un altro sviluppo e di portare dentro il nostro agire sociale il senso di un futuro possibile e diverso.

Prospettive di lotta
Sparse sono state in questi anni le lotte che hanno risposto alla violenta ipocrisia delle leggi, e ha invece trionfato il meccanismo della delega istituzionale e la conciliazione delle contraddizioni in un evasivo e astratto consenso. Abituandoci ad affidare ad altri la conquista e la difesa della nostra libertà, le politiche istituzionali si sono rivelate un modo efficace per governare una società reazionaria e ingiusta, non certo per abolire o ridurre l’ingiustizia sociale, il sessismo e l’arroganza clericale. È ora di demistificare i meccanismi di discriminazione e sfruttamento, e di passare da una sottrazione silenziosa e individuale alla costruzione di una coscienza collettiva, non elitaria o “simbolica”, non fondata sulla delega, ma agìta sul terreno delle condizioni reali di vita. Perché, anche nell’ambito del lavoro, la questione era e rimane quella di un cambiamento radicale della struttura sessista e capitalista della società. È una partita che occorre provare a vincere, anzitutto per noi, ma anche per riaprire gli orizzonti di un mondo sempre più povero di prospettive, di speranze e di utopie. Crediamo per questo che i temi fondamentali su cui discutere siano:
– orari di lavoro e tempo di vita;
– il reddito per l’autodeterminazione;
– il lavoro precario e le possibili forme di lotta da adottare;
– l’ambiente e il concetto di sviluppo o progresso;
– la creazione di osservatori autogestiti sulle problematiche femminili del lavoro (un luogo per agire in prima persona come donne, non solo a scopo rivendicativo, ma di analisi e di osservazione dell’universo lavorativo femminile).
Tentare di intraprendere nuovamente una critica complessiva del conflitto tra i sessi e dell’attuale sistema economico è un bisogno e un desiderio che, crediamo, si è espresso nella manifestazione del 24 novembre 2007 e che ci ha portate oggi qui a riflettere insieme su questi temi.

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