LESBICHE E PRECARIETA’ da Giovanna Camertoni

PARIGI, 12 NOVEMBRE 2003

Cosa centra la precarizzazione dei rapporti di lavoro con le lesbiche? Ovviamente, quando non vivono di rendita, le lesbiche sono lavoratrici come tutte le altre. Ma la precarietà ha anche qualcosa a che fare con la specifica condizione delle lesbiche?
In questo intervento cercherò di mettere in evidenza alcuni effetti della precarizzazione dei rapporti di lavoro sulla vita delle lesbiche.
Cercherò di dimostrare come la condizione di precarietà dal punto di vista lavorativo può rappresentare un elemento di ulteriore inibizione dell’affermazione del proprio orientamento sessuale da parte delle lesbiche con costi molto alti sia da un punto di vista personale che collettivo.
Questo perché i rapporti di lavoro precario, così come l’abolizione dei diritti fondamentali tra cui l’articolo 18 (che è diventato un simbolo delle condizioni di lavoro in generale), rendono tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici maggiormente ricattabili, consentendo ai datori di lavoro di liberarsi con estrema facilità delle persone scomode o indesiderate. Tra queste, a volte, per varie ragioni, ci possono essere le lesbiche.
Ricerche condotte nel nostro e in altri Paesi (tra le ricerche consultate: "Diversi da chi? Gay, lesbiche, trans in un’area metropolitana", Chiara Saraceno, Guerini e Associati, Milano, 2003) indicano che il lavoro (s’intende lavoro stabile, regolato quindi da un con contratto a tempo indeterminato) rappresenta un contesto in cui, in generale, le persone omosessuali si percepiscono come più vulnerabili alle discriminazioni e la visibilità appare più rischiosa. Molte persone che sono uscite allo scoperto con gli amici e la famiglia hanno quindi scelto, per varie ragioni, di non fare altrettanto sul posto di lavoro.
A ogni ingresso in un posto di lavoro, le lesbiche si trovano a fronteggiare un dilemma: se (e come) manifestare il proprio orientamento sessuale, oppure se (e come) assecondare l’assunto di eterosessualità che normalmente permea le relazioni di lavoro.
Più che di una scelta dicotomica, essere visibili o meno, si tratta di un costante processo di "gestione di un’identità stigmatizzata", lungo un continuum che va dall’imitazione di una vita eterosessuale alla completa visibilità, a cui corrisponde un continuum di rischi e di forme di discriminazione.
Per descrivere le diverse discriminazioni alle quali le persone omosessuali sono esposte sul lavoro, si distingue tra due tipi di stigma sociale. Il primo è lo stigma visibile, formulato esplicitamente. Il secondo è lo stigma non ovvio, non visibile, che pone una sfida diversa, quella delle strategie di "gestione delle informazioni". In questo caso sono i prevedibili danni che la circolazione di informazioni riguardo alla propria omosessualità può causare a rendere le persone vulnerabili.
Nel primo caso, quello dello stigma visibile, i meccanismi che producono discriminazioni sono fondati sulla riduzione delle persone omosessuali a un comportamento sessuale considerato come deviante.
In Italia, forse più che altrove, la condizione delle lesbiche nel lavoro e nella vita di tutti i giorni risulta penalizzata da un pregiudizio antico sostenuto da una ingerenza del potere confessionale nelle competenze dello Stato e della società civile particolarmente forte, dall’ostilità e dalla volontà di conservazione delle gerarchie cattoliche che storicamente hanno stigmatizzato come deviante, immorale e pericolosa per i valori della comunità ogni relazione affettiva, sentimentale e sessuale non a fini procreativi, mentre i vari stereotipi sono diventati marchiatura funzionale al mantenimento dell’ordine sociale.
A questo proposito, recentemente il cardinale Joseph Ratzinger ha reso pubblico un documento in cui le gerarchie vaticane si propongono di "illuminare l’attività degli uomini politici cattolici" affinché venga impedito il riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso in quanto "gravemente nocive" per la società: un concentrato di integralismo religioso e di istigazione alla persecuzione delle persone omosessuali.
Le ragioni della discriminazione delle lesbiche vanno quindi ricercate nella presenza di nuovi e vecchi integralismi, nella resistenza e nell’inadeguatezza culturale e storica da parte della società a recepire stili di vita non corrispondenti a standard rassicuranti definiti come "socialmente accettabili".
Le lesbiche rischiano di essere discriminate quando la loro condizione diventa di dominio pubblico. Le discriminazioni si manifestano quando la persona ha deciso di fare il proprio "coming out", ha cioé deciso di rivelare la propria omosessualità per viverla liberamente.
Difficilmente si devono affrontare casi di discriminazioni dirette, è molto più probabile che si tratti di mobbing.
La discriminazione è strisciante e avviene su due versanti: quello del datore di lavoro e quello dei colleghi. E’ frequente che il datore di lavoro non assegni incarichi in cui si sono relazioni con i clienti o spesso ci si trova a non poter lavorare perché non vengono fornite tutte le informazioni per portare a termine un processo o un progetto.
L’altra fonte di discriminazione sono i colleghi di lavoro. L’azienda può infatti essere considerata un microcosmo in cui si riproducono relazioni e pregiudizi presenti nel resto della società. Ci sono situazioni in cui i colleghi vivono l’omosessualità di una collega come un fatto totalmente normale, ma in altri casi l’ambiente di lavoro può diventare invivibile al punto da compromettere la salute e le relazioni. Sono moltissime le persone che si sono rivolte agli sportelli sindacali perché hanno subito discriminazioni tali da costringerle ad abbandonare il lavoro. Si va dai messaggi minatori lasciati nell’armadietto alle telefonate anonime, dalle prese in giro che a volte sembrano anche simpatiche ma che possono diventare molto pesanti, fino ad arrivare a situazioni in cui la persona non è più nella condizione di svolgere il lavoro o di partecipare alle relazioni sociali.
In questa fase, la persona mobbizzata manifesta spesso disturbi psicosomatici, consistenti in insonnia, nodo alla gola, tremore alle gambe, sfinimenti, depressione, mal di schiena, perdita di capelli, vomito, che denotano un certo squilibrio, anche di carattere psichico e caratteriale.
La persona può inoltre iniziare a dare segnali di cedimento della personalità, con continui scatti di nervosismo o di totale assenza o sfiducia nelle proprie capacità lavorative e personali.
A causa di questi malesseri, può inoltre assentarsi dal lavoro per malattia, anche per lunghi periodi, con grave deprezzamento delle sue capacità e della sua immagine professionale e danni alla salute e con costi collettivi molto alti.
Le lesbiche possono essere quindi oggetto di molestie o mobbing da parte dei colleghi o del datore di lavoro, costrette a subire forme di terrore psicologico, ostilità, trasferimenti punitivi, mansioni umilianti, mancati avanzamenti di carriera: tutto ciò che serve a rendere la vita difficile a una dipendente indesiderata.
In un certo numero di casi, inoltre, lavoratrici lesbiche hanno perso il loro posto di lavoro per il loro orientamento sessuale. Sono state scartate o allontanate per la loro libertà conquistata, per la loro visibilità che tuttavia nessun danno creava alla loro professionalità.
Le lesbiche sono discriminate in primo luogo in quanto donne e poi per la loro omosessualità. L’omosessualità femminile può essere considerata relativamente poco visibile e perciò può apparire meno problematica, ma anche l’omosessualità femminile costituisce un fattore discriminante nell’ambiente di lavoro il più delle volte sottovalutato dalle stesse lesbiche.
In teoria, non si può perdere il posto di lavoro, ma sono molte le pressioni e gli strumenti per convincere una dipendente con orientamento non conforme ai dettami del datore di lavoro a licenziarsi, a vivere nella clandestinità o a mentire, per difendere il proprio posto di lavoro.
Nessun provvedimento sanzionatorio, infatti, può essere preso a motivo esplicito dell’orientamento sessuale delle persone. Pertanto, generalmente, le discriminazioni vengono mascherate attraverso pretesti legali, avvengono in modo indiretto e quasi mai l’omosessualità della dipendente é motivo "ufficiale" di un provvedimento disciplinare.
Attraverso la progressiva precarizzazione dell’occupazione i datori di lavoro non saranno nemmeno più obbligati a trovare pretesti o scuse per disfarsi della lavoratrice o del lavoratore indesiderato. Semplicemente non le rinnoveranno più il contratto.
La spinta verso una sempre maggiore flessibilità consentirà infatti ai datori di lavoro di allontanare con estrema facilità le lavoratrici lesbiche non gradite nel proprio organico.
Si può quindi supporre che il timore di non vedersi più rinnovare il contratto, spingerà ancora di più le lesbiche all’invisibilità sul posto di lavoro e quindi a ulteriori forme di autolimitazione nell’espressione della propria personalità.
Ricerche recenti hanno infatti dimostrato che una differenza rimarchevole sul grado di visibilità delle lesbiche sul posto di lavoro riguarda la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.
Chi svolge un lavoro autonomo è più visibile rispetto a chi ha un lavoro dipendente. Ciò appare comprensibile, dato che chi svolge un lavoro autonomo si trova più spesso a lavorare da solo, e non è esposto all’interazione con colleghi e superiori o subordinati.
Le scelte rispetto al grado di visibilità dipendono da un insieme di considerazioni. Sono relative, da un lato al grado di sollecitazione alla comunicazione e visibilità che un determinato contesto lavorativo esprime nei confronti della vita privata delle persone e dalla misura in cui il codice della (etero-) sessualità fa parte dello stile comunicativo informale; dall’altro, riguardano i costi e i benefici dell’essere visibili come lesbiche in un dato posto di lavoro: dalla potenziale pericolosità per la carriera, in relazione ad esempio al tipo di rapporto di lavoro (dipendente o autonomo, precario o fisso), al grado di fiducia verso i singoli colleghi o colleghe con cui si vuole venire allo scoperto, ai potenziali costi di una perdita del lavoro.
Tali scelte cambiano, quindi, in base al contesto specifico più che all’atteggiamento generale degli intervistati rispetto alla visibilità.
Si nota così una maggiore preoccupazione tra le più giovani, forse perché meno sicure complessivamente di sé e della propria capacità di gestire le situazioni; ma forse anche perché, come tutte le loro coetanee, percepiscono il mercato del lavoro caratterizzato da poche sicurezze ed elevata competizione. Temono quindi che l’esporsi come lesbiche diminuisca le loro chance di collocazione e aumenti quelle di espulsione.
A tal proposito risulta emblematico il caso di Grazia, 21 anni di Torino. Grazia ha dichiarato di essere lesbica in famiglia e agli amici, che conoscono la sua compagna. Sul lavoro ha compiuto scelte diverse. Nella ditta di pulizie in cui lavorava saltuariamente non ha pensato di rendersi visibile a nessuno, perché era appunto un lavoro troppo saltuario. Recentemente è stata assunta come dipendente di un ente pubblico. Nel nuovo lavoro era intenzionata a rendersi visibile così come lo è negli altri ambiti della sua vita, ma ha scelto di "non rischiare", per ora:

"Qui faccio finta di essere eterosessuale. Nel senso che se mi chiedono: ‘Cosa hai fatto ieri sera?’; io invece che rispondere: ‘Sono uscita con la mia ragazza’ dico ‘Sono uscita col mio ragazzo’, oppure quando mi chiama al telefono lei… e mi chiama spesso… dico che era il mio ragazzo. Ma questo non è tanto nella mia natura. Io prima non ero così, prima non avevo nessun problema a dire che ero lesbica, che avevo una donna, ecc… Ma lì la mia compagna mi ha detto: ‘Hai ancora due mesi di prova da fare, ci hai messo tanto a trovare questo lavoro… vacci un po’ coi piedi di piombo perché sai…" E io le ho detto: ‘Mica mi potranno mandare via perché sono lesbica?’. Lei mi ha detto: ‘Certo che no, ma potrebbero trovare qualsiasi altra scusa’. Quindi ci sto andando coi piedi di piombo.

Grazia però non esclude di parlare a qualcuno, se si dovesse instaurare un rapporto di amicizia. Intanto per capire che conseguenze la sua visibilità potrebbe avere, sta "tastando il terreno", osservando le reazioni dei colleghi quando si parla di altre persone omosessuali. Per qualsiasi decisione aspetta, comunque, che finisca il periodo di prova.
Superato il periodo di prova si può ragionevolmente supporre che Grazia dichiarerà il proprio orientamento sessuale alle sue colleghe e superiori. Ma se il periodo di prova non dovesse finire mai? Se cioè la condizione di precarietà lavorativa fosse una condizione non limitata nel tempo, ma permanente?
Probabilmente Grazia tenderebbe a non dichiarare il proprio orientamento sessuale per timore che questo possa compromettere la continuazione del rapporto di lavoro attraverso, ad esempio, il mancato rinnovo del contratto.
Inoltre, il continuo passaggio da un’attività lavorativa precaria ad un’altra altrettanto precaria, le impedirebbe di instaurare relazioni sufficientemente significative di fiducia e amicizia con le proprie colleghe/ghi, tali da consentirle di dichiarare serenamente, dopo un po’ di tempo, il proprio orientamento sessuale.
Un altro elemento che può spingere le persone a non dichiarare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro è la totale assenza nella legislazione italiana di tutele specifiche.
In Italia, infatti, il decreto di attuazione della direttiva europea 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parita’ di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, non rappresenta un efficace strumento contro le discriminazioni, in particolare per quelle relative all’orientamento sessuale. Il Governo italiano ha infatti introdotto nel decreto di attuazione ogni possibile eccezione ammessa e violato alcune disposizioni fondamentali. Il decreto non recepisce inoltre le disposizioni della direttiva relative all’inversione dell’onere della prova e propone un pericoloso accostamento tra omosessualità e pedofilia.
La precarietà dal punto di vista lavorativo significa inoltre precarietà esistenziale e maggiore povertà per tutti.  Per le lesbiche la precarietà dal punto di vista lavorativo può risultare ancora più insidiosa, nel momento in cui non possono contare sulla famiglia di origine perché i rapporti sono tesi a causa della mancata accettazione da parte dei genitori dell’omosessualità della figlia, altrimenti le può obbligare a rimanere in famiglia, nonostante i rapporti conflittuali, perché i rapporti di lavoro sono saltuari, frammentati, e non riescono a mantenersi.
Per chi sta in coppia invece la precarietà sul lavoro va ad aggiungersi al senso di precarietà generato dall’impossibilità di dare riconoscimento giuridico al proprio rapporto di coppia e quindi alla totale assenza di diritti e garanzie a cui appellarsi in caso di scioglimento della coppia o di morte della partner.
Se la discriminazione appare in modo più evidente quando lo stigma è visibile, anche nei casi di non visibilità esiste una forma di discriminazione, che consiste nei costi che la persona deve sostenere per realizzare questa "gestione delle informazioni", attraverso costanti processi di nascondimento.
Chi ha scelto di tenere nascosta o di non comunicare la propria omosessualità, anche a costo di "passare per eterosessuali" motiva tale decisione con la preoccupazione della discriminazione. Le lesbiche cioè manifestano la paura di effetti negativi per la propria posizione lavorativa e per le prospettive di carriera, fino all’eventualità di essere licenziate. E’ evidente quindi che sentire la necessità di nascondersi è già una forma di discriminazione.
Effetti negativi sulla carriera sono anche indicati come possibile conseguenza di un deterioramento delle relazioni con i colleghi. La visibilità è considerata particolarmente pericolosa anche per certi tipi di lavoro: è il caso degli insegnanti e di altre figure professionali che lavorano con i minori.
Da una ricerca condotta da ArciLesbica nel 1999 su un campione di 90 intervistate, quasi tutte di età compresa tra il 25 e il 35 anni, geograficamente miste, quasi tutte senza figli, quasi tutte con titolo di studio diploma o laurea, e occupate: 86 pensano che le lesbiche non si dichiarano sul posto di lavoro per non rischiare di avere problemi. Tra i problemi si individua, come principale, l’emarginazione.
Si può quindi affermare che gran parte delle lesbiche teme che rivelare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro possa danneggiarle professionalmente, quindi scelgono di mantenersi invisibili.
La scelta dell’invisibilità non è però priva di conseguenze.
Nel lavoro, mantenersi non visibili può significare, infatti, dover celare aspetti essenziali della propria personalità, sottrarsi a relazioni di amicizia o confidenza con i colleghi, descrivere in modo distorto la propria vita privata (ad esempio alterando il sesso del proprio partner), creando problemi di credibilità che tendono ad aumentare nel tempo, producendo ansia.
Restare non visibili sul posto di lavoro non è una scelta passiva, il silenzio non basta. Sul posto di lavoro, l’eterosessualità non è soltanto data per scontata, ma anche continuamente manifestata, dall’anello al dito alle foto di famiglia, dalle confidenze con i colleghi su fidanzati, marti e figli, alle occasioni sociali in cui sono invitati i partner. Per restare invisibili sono quindi necessarie strategie per adeguarsi a queste aspettative, contraffacendo un’identità eterosessuale, o per evitare situazioni o discussioni che potrebbero rivelare il proprio orientamento sessuale.
Queste strategie hanno costi in riferimento alla possibilità di stabilire relazioni di complicità, amicizia con i colleghi, o più in generale al disagio nell’essere forzati a nascondere una parte di sé sul lavoro.
In questo caso, si verifica pertanto una progressiva interiorizzazione della marginalizzazione, un adattarsi al sopruso per quieto vivere immediato con ripercussioni sull’autostima e rinuncia a rivendicare il diritto al rispetto e alla vivibilità per sé, ma anche per tutte le altre.
Ciò porta ad una sostanziale sottovalutazione del fenomeno generale della discriminazione e dei problemi esistenti in primo luogo da parte di chi si autolimita e non si difende. Altri costi sono dovuti al fatto che non essere visibili può impedire di reagire come si vorrebbe a comportamenti discriminatori o offensivi nei confronti di altre lesbiche.

Giovanna Camertoni
RECAPITO PER INFO: giovanna.camertoni@infinito.it

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