Perché gli omicidi in famiglia sono sempre “inspiegabili”?

da www.liberazione.it

di Lea Melandri
Il rapporto tra gli uomini e le donne, il perverso tragico annodamento
di dominio e amore, deve essere davvero la “roccia basilare” contro cui
si arrestano ragione, cultura, responsabilità civile e morale, se,
riguardo alla strage avvenuta in una famiglia di Verona alcuni giorni
fa, né la televisione né i giornali sono andati oltre la nuda cronaca
dei fatti, se a nessuno è venuto in mente di chiedersi la cosa più
banale e più sensata: perché la decisione di una donna di separarsi
riesce a scatenare la furia omicida-suicida dell’uomo che con lei ha
vissuto e visto crescere figli? Non è la prima volta che accade, la
maggior parte dei casi di violenza maschile all’interno della coppia,
negli ultimi anni, è motivata dalla scelta della donna di interrompere
una convivenza divenuta evidentemente insopportabile, da una
affermazione di libertà dovuta al rispetto di se stessa, o al semplice
desiderio di dare una svolta alla propria vita. L’aggettivo
“inspiegabile”, che la cronaca usa ormai ritualmente per questi delitti,
è la maschera di una ipocrisia, o comunque di una incuria,
generalizzate, che non accennano a incrinarsi: “inspiegabile” vuol dire,
in questo caso, qualcosa su cui non si vuole riflettere e fare
chiarezza, una evidenza -il volto violento dell’amore- che deve restare
invisibile.


Non ci vogliono conoscenze particolari della vita di relazione e della
vita psichica di un individuo, per sapere che la “normalità” di una
coppia, di una famiglia, così come viene ripetuta fino alla nausea nelle
testimonianze del vicinato, significa essenzialmente che nessuno sa più
cosa succede oltre le pareti della propria casa, del suo cortile, e se
lo sa, tace per quieto vivere o perché all’invadenza della comunità
chiusa paesana non abbiamo saputo finora sostituire nessuna altra forma,
libera e solidale, di socialità. Non serve neppure una preparazione
psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea proprietaria su cui
si è retta storicamente la famiglia – la dipendenza psicologica,
giuridica, morale, affettiva, che essa struttura, tra marito e moglie,
madre e figli-, con le pulsioni aggressive che vi crescono dentro
inevitabilmente, e che in taluni casi provocano gli effetti nefasti che
conosciamo. C’è una responsabilità, si potrebbe dire una colpevolezza,
più odiosa di quella dell’uomo che uccide uccidendosi a sua volta o
passando il resto della sua vita in carcere: è quella di una società -di
maschi prima di tutto, ma anche di donne- che non pronuncia una parola,
non muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si
protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la
centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene
nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo
arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore, si
consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili.
Il 25 novembre, come tutti gli anni, ci saranno le rituali celebrazioni
della giornata internazionale di condanna della violenza contro le
donne. Le massime autorità dello Stato, i partiti, le amministrazioni
locali, le associazioni più varie si affacceranno agli schermi
televisivi, nazionali e regionali, per recitare il ritornello stantio
della compassione e della solidarietà di giornata, cioè
dell’indifferenza di sempre. Allo slogan, che è comparso su alcuni
manifesti – della serie “non lasciamole sole”-, verrebbe da rispondere
“meglio sole che mal accompagnate”, soprattutto se la compagnia è quella
che discute accanitamente per un mese su chi debba essere il presidente
della commissione di Vigilanza sulla Rai, e non si cura minimamente
dell’influenza che ha la televisione nel confermare o contrastare
modelli di inciviltà, pregiudizi, figure della violenza in ogni suo
aspetto. Il 22 novembre, a Roma c’è stata una manifestazione di gruppi,
associazioni, collettivi femministi e lesbici, preparata da incontri,
assemblee nazionali da un anno a questa parte. Pur con la presenza di
donne di età e storia diverse, è stata, come già lo scorso anno negli
stessi giorni, l’uscita pubblica di una nuova generazione, consapevole
che il privilegio maschile nella società comincia nelle case, che il
potere dell’uomo sulla donna passa, prima di tutto, da
quell’appropriazione del corpo delle donne –sessualità, capacità
generativa e lavorativa- che ancora oggi ha nella famiglia il suo
fondamento “naturale”, nella “norma eterosessuale” la sua copertura
ideologica.
Nonostante che gli omicidi quotidiani -di donne, prevalentemente, ma non
solo- abbiano tolto da tempo alla famiglia la sua immagine tradizionale
di ‘luogo sacro’, focolare dell’amore, culla di teneri affetti, riposo
del guerriero, nonostante che la diffusa pedofilia si annidi proprio
nelle stanze che si vorrebbero destinate ad altra intimità, la famiglia
resta il grande rimosso dell’insicurezza sociale, delle paure reali o
ingigantite ad arte, la zona di passioni “inspiegabili” per una cultura
di massa che, per un altro verso, pretende di portare tutto allo
scoperto, e che oggi penetra più o meno cinicamente, per ragioni
scientifiche commerciali, politiche, moraliste o religiose, fin nelle
pieghe più insondabili della nascita, della morte, della maternità,
della malattia. E’ facile fare una battaglia perché si limiti il porto
d’armi, perché cessi la campagna sicuritaria da parte di politici
interessati a raccogliere consensi giocando sull’emotività della gente
più indifesa. Più difficile è guardare senza orrore e senza arretramenti
quel coltello che compare sulle cucine, sulle tavole, e che somministra
cibo e morte, arma a doppio taglio proprio come il legame che stringe
amore e odio intorno alla coppia, alle parentele, alle convivenze.
All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si
gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello
sfruttamento, della violenza più resistente a ogni cambiamento, per la
radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle esperienze
che vi sono implicate. Ma c’è, e non da ora, una storia e una cultura
politica di donne che ha osato portare lo sguardo oltre i confini della
polis, scoperchiare mascheramenti ideologici secolari, riformulare da
quell’ ‘altrove’, cellula prima di ogni forma di dominio, l’idea stessa
di politica. Se, nonostante il pervicace silenzio di cui è fatta
oggetto, torna da più di un secolo a riempire piazze e strade, si può
ancora far finta di non vederla ma non sapere che esiste.

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