AUTRICE: Adrienne Rich
PUBBLICATO IN: Nuova DWF, n. 23-24, pp. 5-40, 1985.
TITOLO ORIGINALE: “Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence”, in Signs: Journal of Women in Culture and Society, Summer 1980, 5(4): 631-60; ripubblicato in: Journal of Women’s History, Autumn 2003, 15(3): 11-48
TRADUZIONE/TRASCRIZIONE DI: Traduzione di Maria Luisa Moretti; trascrizione di Nerina Milletti
ANNOTAZIONI: Saggio apparso precedentemente in versione ridotta nei numeri 3 e 4 di Effe (marzo e aprile 1981). Le note, nell’originale a piè di pagina, sono state spostate a fine testo; non sempre era indicato il punto in cui andavano inserite, perciò quelle senza riferimento nel testo sono state posizionate arbitrariamente andando un po’ a senso. [N.M.]
"Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica"
Adrienne Rich
Dal punto di vista biologico, gli uomini hanno un unico orientamento innato: quello sessuale che li spinge verso le donne; mentre le donne ne hanno due: uno sessuale nei confronti dell’uomo e uno riproduttivo nei confronti della prole .
Ero una donna terribilmente vulnerabile, polemica, che usava la femminilità come una specie di metro per misurare o scartare gli uomini. Si, qualcosa del genere. Ero un’Anna che chiedeva di essere sconfitta dagli uomini, anche se non ne ero conscia. (Ma io ne ho coscienza. E averne coscienza significa lasciarmi dietro tutto questo e diventare… che cosa?) Fui presa da uno stato d’animo comune alle donne del nostro tempo, che può renderle amare, lesbiche o misantrope. Si, Anna in quel periodo ero… [un’altra linea nera attraversa la pagina]
Altri esempi tratti da numerosi testi, oltre ai due appena citati, potrebbero essere addotti a testimonianza del pregiudizio derivante dall’istituzionalizzazione dell’eterosessualità per cui l’esperienza lesbica viene inscritta in un ambito che va dal deviante all’aberrant o, più sbrigativamente, resa invisibile. Le affermazioni della Rossi secondo cui le donne sarebbero «per natura orientate sessualmente» verso gli uomini, o quella della Lessing che considera la scelta lesbica semplicemente una reazione all’amarezza provata con gli uomini,
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non sono affatto peculiari di queste due autrici, ma sono ampiamente diffuse nella letteratura e nelle scienze sociali.
In questa occasione mi interessa sviluppare altri due aspetti, cioè:
a) come e perché la scelta di una donna di condividere con una sua simile passione, vita, lavoro, di avere donne come amanti e come proprio gruppo di riferimento, è stata soffocata, annullata, respinta nell’ombra e costretta a dissimularsi; b) il silenzio pressoché totale sull’esistenza lesbica da parte di un’ampia gamma di scritti, compresi quelli accademici femministi.
La connessione tra i due aspetti mi sembra ovvia e ritengo che gran parte della elaborazione teorica e critica delle femministe si sia arenata su questa secca.
Alla base del mio ragionamento c’è la convinzione che l’esistenza di studi lesbici specifici non può costituire un alibi per il pensiero femminista: qualsiasi teorizzazione o produzione politico-culturale che tratti dell’esistenza lesbica come di un fenomeno marginale o «meno naturale»; o come di un fatto di «preferenza sessuale» pura e semplice, o ancora come immagine speculare dei rapporti eterosessuali o omosessuali maschili, perde credibilità alla base, indipendentemente da eventuali altri meriti. La ricerca teorica femminista non può più limitarsi ad esprimere tolleranza per il «lesbismo» in quanto «stile di vita alternativo» o fare riferimenti meramente rituali alle le-
sbiche. E ormai tempo di elaborare una critica femminista dell’orientamento eterosessuale imposto alle donne, ed in questo saggio cercherò di dimostrare il perché.
Inizierò con alcuni esempi: una breve analisi di quattro libri pubblicati negli ultimi anni, scritti da punti di vista e con orientamenti politici diversi, ma che si presentano come portatori di una visione femminista e come tali sono stati favorevolmente accolti . Questi studi partono tutti dal presupposto che le relazioni sociali fra i sessi sono confuse ed estremamente problematiche, se non addirittura mutilanti, per le donne, ed in ciascuno di essi si tenta di individuare possibili vie per trasformarle. Alcuni di questi studi mi sono stati certo più utili di altri, ma di una cosa sono certa: tutti ne avrebbero guadagnato in termini di accuratezza, autorevolezza ed incisività se solo le autrici avessero sentito l’obbligo di parlare dell’esistenza lesbi-
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ca in quanto realtà e fonte di conoscenza e di potere a disposizione delle donne: oppure di parlare dell’istituzionalizzazione dell’eterosessualità come una testa di ponte della supremazia maschile . In nessuno di questi studi invece ci si pone la domanda se le donne, in un contesto diverso o a parità di condizioni con l’uomo, sceglierebbero l’accoppiamento eterosessuale e il matrimonio; in maniera implicita o esplicita, si dà per scontato che l’eterosessualità sia la «scelta sessuale» della «maggior parte delle donne». In nessuno di questi libri che trattano del ruolo materno, di ruoli sessuali, di rapporti e veti sociali alle donne, si analizza l’obbligo all’eterosessualità in quanto istituzione che condiziona pesantemente tali aspetti, né si avanzano dubbi, neppure indiretti, sul concetto di «scelta» o di «orientamento innato».
Nel libro For Own Good: 150 Years of the Expert’s Advice to Women, Barbara Ehrenreich e Deirdre English sviluppano i temi di due loro magnifici pamphlets precedenti, Witches, Midwives and Nurses: a History of Women Healers e Complaints and Disorders: the Sexual Politics of Sickness e ne fanno uno studio complesso e stimolante. La loro tesi è che i consigli dati alle donne americane dagli operatori sanitari maschi, soprattutto per quanto riguarda l’esercizio del sesso nel-
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l’ambito del matrimonio, la maternità e l’allevamento dei figli, fossero in sintonia con gli imperativi del contesto economico e con il ruolo produttivo e/o riproduttivo delle donne, necessario alle esigenze del capitalismo. Le donne sono state in varie epoche fruitrici-vittime di innumerevoli cure, terapie e norme (compresa quella imposta alle borghesi di simboleggiare e custodire la sacralità della casa, la romanticizzazione scientifica della casa). Nessuno di questi consigli degli «esperti» aveva una specifica base scientifica o una particolare attenzione alle esigenze delle donne; tutti rispecchiavano invece i bisogni degli uomini, le loro fantasie sulle donne e il loro interesse a controllarle — soprattutto nel campo della sessualità e della maternità — il tutto strettamente legato alle esigenze del capitalismo industriale. Il libro è così ricco di informazioni demolitrici e di lucido, intelligente acume femminista che mentre lo leggevo ero costantemente in attesa del momento in cui sarebbe stato preso in esame il divieto di base contro il lesbismo, ma quel momento non è mai arrivato.
E’ improbabile che ciò sia dovuto a mancanza di informazione. In Gay American History , Jonathan Katz scrive che fin dal 1656 nella New Haven Colony era prevista la pena di morte per le lesbiche e fornisce una documentazione stimolante ed istruttiva sul «trattamento» (o tortura) loro riservato da parte dei medici nel XIX e XX secolo. In un suo recente lavoro, la storica Nancy Sahli scrive che al volgere del XX secolo fu imposta una decisa restrizione alle amicizie troppo intense fra le donne, nei colleges . L’ironia del titolo del libro di Barbara Ehrenreich e di Deirdre English, For Her Own Good (Per il suo bene) è forse riferita innanzitutto all’aspetto economico dell’imperativo alla eterosessualità; al matrimonio e alle sanzioni imposte alle nubili e alle vedove, considerate un tempo, come tuttora, delle devianti. Tuttavia in questa rassegna spesso illuminante delle ricette maschili per la salute fisica e mentale delle donne manca proprio l’analisi, da parte delle autrici, femministe marxiste, dell’aspetto economico dell’obbligo all’eterosessualità .
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Dei tre libri che trattano di psicoanalisi, quello di Jean Baker Miller, Toward a New Psychology of Women, è scritto come se le lesbiche semplicemente non esistessero, neppure come individui marginali, e, visto il titolo del libro, ciò mi lascia stupefatta. Tuttavia, le recensioni positive che il libro ha avuto sulle riviste femministe, compresa «Signs» e «Spokeswoman», fanno pensare che le posizioni eterocentriche della Miller siano ampiamente condivise. In The Mermaid
and the Minotaur: Sexual Arrangements and the Human Malaise, Dorothy Dinnerstein sostiene e propugna appassionatamente la necessità che uomo e donna condividano la responsabilità dei figli e che sia posta fine a quella che, a suo parere, è la simbiosi maschio/femmina degli «accomodanti compromessi fra i sessi», che a suo avviso stanno portando la specie verso una violenza crescente e l’autoestinzione. A parte una serie di altri problemi che questo libro mi pone (compreso il suo passare sotto silenzio il cieco terrorismo istituzionale esercitato storicamente dagli uomini sulle donne — e i bambini — ampiamente documentato dalla Barry, Daly, Russel e Van de Ven, e Brownmiller , nonchè la sua mania di voler dare una lettura unicamente psicologica della realtà, a scapito degli elementi economici e materiali che concorrono a creare quella realtà psicologica), a parte questo, dicevo, trovo essenzialmente astorica la visione della Dinnerstein secondo la quale i rapporti fra donne e uomini sarebbero rapporti di «collaborazione per mantenere la follia della storia», cioè per perpetuare rapporti sociali che sono di ostilità, sfruttamento e distruzione della vita stessa.
L’autrice considera le donne e gli uomini come partners paritari nello stabilire «accomodanti compromessi fra i sessi», dimenticando evidentemente le numerose lotte di resistenza all’oppressione (nostra e altrui) messe in atto dalle donne per cambiare la nostra condizione. Ignora in particolare la storia di quelle che — come streghe, femmes seules, renitenti al matrimonio, zitelle, vedove autosufficienti e/o lesbiche — sono riuscite su vari piani a non collaborare. Ed è proprio questa la storia da cui le femministe hanno tanto da imparare e su cui è steso un generale velo di silenzio. La Dinnerstein ammette, alla fine del suo libro, che «il separatismo delle donne», seb-
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bene «largamente impraticabile su ampia scala e per lunga durata», ha qualcosa da insegnarci: «separate, le donne potrebbero in teoria cominciare ad imparare da zero — non fuorviate dalle possibilità di sottrarsi a tale compito offerte finora dalla presenza maschile — che cosa sia un’umanità intatta e autocreativa» .
Espressioni quali «umanità intatta e autocreativa» offuscano la domanda di quale fosse il reale obiettivo delle varie forme di separatismo femminile. La verità é che in ogni cultura e in ogni epoca storica vi sono state donne che hanno vissuto una esistenza indipendente, non eterosessuale ed in stretto rapporto con le loro simili, ovviamente nella misura consentita dal contesto sociale e spesso convinte di essere le «uniche» ad agire in quel modo. E hanno scelto di farlo, sebbene poche siano state in condizioni economiche tali da potersi permettere di rifiutare il matrimonio e nonostante che il trattamento riservato a quelle non sposate andasse dalla calunnia alla derisione, al genocidio deliberato, compresi la tortura e il rogo di milioni di vedove e zitelle durante la caccia alla streghe nel XV, XVI e XVII secolo in Europa e la pratica del suttee nei confronti delle vedove indiane .
Nel suo libro The Reproduction of Mothering, Nancy Chodorow si avvicina in effetti al limite del riconoscimento dell’esistenza lesbica; come la Dinnerstein anche lei é convinta che, poiché nella divisione sessuale del lavoro la responsabilità dell’allevamento dei figli é affidata unicamente alle donne, ciò ha dato origine ad un’organizzazione sociale basata nel suo complesso sulla disuguaglianza fra i sessi, e che tale disuguaglianza potrà essere eliminata solo se anche gli uomini si assumeranno tale compito fondamentale. Nell’esaminare da un punto di vista psicoanalitico l’influenza che le cure materne hanno sullo sviluppo psicologico dei figli di entrambi i sessi, essa ci dimostra che gli uomini sono «emozionalmente secondari» nella vita delle donne e
che le «donne hanno un mondo interiore più ricco cui fare riferimento… dal punto di vista emotivo gli uomini non rivestono per le donne la medesima importanza che queste rivestono per loro» . Ciò trasferirebbe nella nostra epoca le scoperte della Smith-Rosenberg sulla centralità emotiva delle donne per le donne nel XVIII e XIX secolo. «Centralità emotiva» può ovviamente riferirsi
sia all’ira che all’amore, oppure a quella intensa mescolanza dei due
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sentimenti che spesso si riscontra nei rapporti fra donne — un aspetto, questo, di ciò che sono arrivata a definire «la doppia vita delle donne», come vedremo più avanti.
La Chodorow conclude che, poiché le madri sono donne, «la madre resta per la bambina un oggetto [sic] interno primario, così che i rapporti eterosessuali si basano per lei su un modello di rapporto secondario e non esclusivo, mentre nel bambino essi ricreano un rapporto primario esclusivo». Secondo la Chodorow le donne «hanno appreso, per ragioni sia psicologiche che pratiche, a negare i limiti degli amanti maschi» .
Si sorvola però su queste ragioni pratiche (quali la caccia alle streghe, il controllo maschile della legge, della teologia e della scienza o l’impossibilità di sopravvivenza economica all’interno della divisione sessuale del lavoro). Il resoconto della Chodorow accenna di sfuggita alle limitazioni ed alle sanzioni che storicamente sono servite ad imporre o ad assicurare l’accoppiamento delle donne con gli uomini e ad impedire e punire la nostra unione con una donna o l’alleanza in gruppi indipendenti con altre donne. L’autrice liquida l’esistenza lesbica commentando che «i rapporti lesbici tendono effettivamente a ricreare emozioni e connessioni del rapporto madre-figlia, ma la maggioranza delle donne è eterosessuale» (sottintendendo: più mature, che hanno superato il rapporto madre-figlia) ed aggiunge: «Questa preferenza per l’eterosessualità ed i numerosi tabù sull’omosessualità, in aggiunta all’oggettiva dipendenza economica dall’uomo, rendono improbabile la scelta di legami sessuali primari con altre donne — anche se è una scelta alquanto più diffusa negli ultimi anni» . La rilevanza di quest’ultima affermazione dovrebbe stimolare ulteriori indagini, ma la Chodorow lascia cadere l’argomento. Intende forse dire che l’esistenza lesbica è divenuta più visibile negli anni più recenti (in certi ambienti?), che le pressioni economiche o di altra natura sono cambiate (nel capitalismo, nel socialismo o in entrambi?) e che perciò un numero sempre maggiore di donne sta rifiutando la «scelta» eterosessuale? L’autrice sostiene che le donne desiderano avere figli perché i loro rapporti eterosessuali mancano di ricchezza e di intensità e che attraverso l’esperienza della maternità la donna cerca di ricreare l’intenso legame avuto con la propria madre. Sulla base delle sue stesse scoperte, sembrerebbe che la Chodorow voglia portare implicitamente a concludere che l’eterosessualità non è una «scelta» del-
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le donne, infatti essa scinde, in primo luogo, l’erotico dall’emotivo in un modo che comporta impoverimento e sofferenza per le donne. Eppure il suo libro contribuisce a mantenere l’imperativo dell’eterosessualità.
Omettendo di parlare della socializzazione sotterranea e delle forze esplicite che hanno incanalato le donne verso il matrimonio e l’amore eterosessuale, pressioni che vanno dalla vendita delle figlie all’economia post-industriale, ai silenzi della letteratura e alle immagini televisive, la Chodorow, come la Dinnerstein va ad impelagarsi nel tentativo di riformare una istituzione maschile — l’eterosessualità obbligata — quasi esistesse una inclinazione eterosessuale di natura mistico/biologica, una «preferenza» o «scelta» che spinge le donne verso gli uomini nonostante i potenti impulsi e le complementarità emotive che spingono le donne verso le donne.
Si dà inoltre per scontato che tale «scelta» non richieda spiegazioni salvo la tortuosa teoria del complesso edipico femminile o quella della necessità della riproduzione della specie, mentre sarebbe la sessualità lesbica (solitamente e scorrettamente «inclusa» nell’omosessualità maschile) a dover essere spiegata. Questa presunzione del fatto che la sessualità femminile sia eterosessuale mi sembra un dato in sé degno di nota: è qualcosa di enorme che è scivolato silenziosamente fin nelle fondamenta del nostro pensiero.
Un esempio della diffusione di tale presunzione è dato dall’argomentazione corrente che in un mondo di veri uguali, in cui gli uomini non siano oppressivi e si curino della propria prole, ciascuno sarebbe bisessuale; è un concetto che obnubila e consegna al sentimentalismo le reali condizioni nelle quali le donne hanno sperimentato la sessualità. E il vecchio vizio «liberal» di scavalcare i compiti e le lotte del qui ed ora; è l’idea di un processo costante di definizione sessuale che genererà le proprie potenzialità e le proprie scelte. (Ciò presuppone anche che la scelta delle donne di stare con le donne dipende semplicemente dal fatto che gli uomini sono oppressivi e non disponibili emotivamente: il che non tiene conto tuttavia di quelle donne che continuano ad intessere rapporti con uomini oppressivi e/o insoddisfacenti dal punto di vista emotivo). La mia opinione è che l’eterosessualità, come la maternità, deve essere considerata ed analizzata in quanto istituzione politica anche da coloro, o meglio, proprio da coloro che, in base alla loro esperienza personale, ritengono di essere i precursori di nuove relazioni sociali fra i sessi.
II
Se le donne sono la prima fonte di nutrimento emotivo e fisico per la prole di entrambi i sessi, sembrerebbe logico — da un punto
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di vista femminista almeno — porsi le seguenti domande: se la ricerca d’amore e di tenerezza di entrambi i sessi non si rivolge originariamente alle donne, perché mai le donne dovrebbero dare un nuovo indirizzo a tale ricerca, perché mai dovrebbe esistere un così rigido legame fra la sopravvivenza della specie, i mezzi della fecondazione e i rapporti erotici/emotivi e perché tanta violenza censoria dovrebbe essere necessaria per imporre la lealtà e l’asservimento totali, emotivi ed erotici, delle donne agli uomini. Dubito che vi sia un numero significativo di teoriche ed accademiche femministe che si siano date la pena di individuare le costruzioni sociali che distolgono le energie emotive ed erotiche delle donne da se stesse e dalle loro simili e da valori femminili. Queste considerazioni spaziano — come cercherò di dimostrare — letteralmente, dalla schiavitù fisica, alla dissimulazione, alla deformazione di possibili opzioni diverse.
Personalmente, non ritengo «motivo sufficiente» a dar conto dell’esistenza lesbica il fatto che siano le donne a «fare da madre», ma questo tema é stato molto discusso negli ultimi tempi, associato di solito all’opinione che una maggiore partecipazione degli uomini nell’allevamento dei figli ridurrebbe l’antagonismo fra i sessi, riequilibrando la disparità di potere sessuale degli uomini rispetto alle donne. Questo dibattito viene condotto senza tenere in alcun conto il fenomeno, e tanto meno l’ideologia, dell’istituzionalizzazione dell’eterosessualità.
Non intendo fare qui della psicologia, ma piuttosto svelare le fonti del potere maschile; ritengo infatti che una partecipazione massiccia degli uomini all’allevamento della prole non porterebbe alcun cambiamento radicale nell’equilibrio del potere maschile in una società che si riconosce nei valori maschili.
Nel suo saggio L’origine della famiglia, Kathleen Gough elenca otto caratteristiche del potere maschile nelle società arcaiche e contemporanee su cui vorrei basarmi: «la capacità degli uomini di negare alle donne la sessualità o di forzarla verso quella maschile; di disporre o sfruttare il loro lavoro al fine di controllarne i prodotti; di avere il controllo sui figli o di sottrarglieli; di confinarle fisicamente e impedirne i movimenti; di usarle come oggetti di transazioni maschili; di tarpare la loro creatività o di impedirne l’accesso ad ampie aree del sapere sociale e delle acquisizioni culturali» . (La Gough non ritiene
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che queste forme di potere servano specificamente ad imporre l’eterosessualità, ma solamente a creare l’ineguaglianza sessuale). Le caratteristiche del potere maschile comprendono: (le frasi in corsivo sono della Gough; quelle in parentesi quadre sono le mie elaborazioni di ciascuna delle sue categorie).
1. Negare alle donne il diritto alla [nostra] sessualità [attraverso la clitoridectomia e l’infibulazione; le cinture di castità; forme di punizione, compresa la pena di morte, per l’adulterio femminile; forme di punizione, compresa la morte, per la sessualità lesbica; negazione psicoanalitica della clitoride, biasimo censorio contro la masturbazione; negazione della sessualità in gravidanza e in menopausa; isterectomia non necessaria; diffusioni di immagini pseudo-lesbiche attraverso i media e la letteratura; chiusura di archivi e distruzione di documenti relativi all’esistenza lesbica];
2. o imporla [la sessualità maschile] loro [attraverso lo stupro — compreso quello coniugale — e le percosse nell’ambito coniugale; incesto dei padri sulle figlie, dei fratelli sulle sorelle; l’educazione impartita alle donne a considerare che «la spinta» sessuale maschile equivale ad un diritto ; idealizzazione dell’amore eterosessuale nell’arte, nella letteratura, nei media, nella pubblicità etc..; matrimoni con spose bambine; matrimoni combinati; prostituzione; harem; teorie psicoanalitiche sulla frigidità e l’orgasmo vaginale; immagini pornografiche di donne che provano piacere dalla violenza sessuale e dall’umiliazione — il cui messaggio subliminale è che il sadismo eterosessuale è più «normale» della sessualità fra donne];
3. comandare o sfruttare il loro lavoro al fine di controllarne i pro-
dotti [attraverso l’istituzione del matrimonio e della maternità come produzione non retribuita; il relegamento ai livelli più bassi nel mondo del lavoro retribuito; la lusinga ingannevole della donna-simbolo che ha fatto carriera; il controllo maschile sull’aborto, la contraccezione e il parto; la sterilizzazione forzata; il lenocinio; l’uccisione delle bambine, che priva le madri delle figlie e contribuisce alla svalutazione generalizzata delle donne];
4. avere il controllo della loro prole e deprivarle di essa [attraverso
il diritto paterno e «il rapimento legalizzato» ; la sterilizzazione forzata; l’infanticidio sistematizzato; la sottrazione giuridica dei figli alle madri lesbiche da parte dei tribunali; i maltrattamenti colposi degli ostetrici maschi; l’utilizzazione della madre, quale «torturatrice
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simbolica» nel praticare le mutilazioni genitali o nel fasciare i piedi (o la mente) della figlia per adeguarla al matrimonio];
5. tenerle confinate fisicamente e impedirne la libera circolazione [attraverso lo stupro come mezzo terroristico per impedirne la libera circolazione per le strade; il purdah; la fasciatura dei piedi; l’atrofizzazione delle capacità atletiche delle donne; codici di abbigliamento «femminile» dell’alta moda; il velo; le molestie sessuali per le strade; il relegamento ai livelli più bassi nel mondo del lavoro retribuito; la norma prescrittiva ad essere madri «a tempo pieno»; la dipendenza economica forzata delle mogli];
6. usarle come oggetto di transazione maschile [l’uso delle donne come «doni»; il prezzo della sposa; il lenocinio; i matrimoni combinati; l’impiego di donne come intrattenitrici per facilitare gli affari maschili, cioè la moglie/padrona di casa, le cameriere ben vestite per il titillamento sessuale maschile, ragazze squillo, «conigliette», geishe, prostitute di Kisaeng, segretarie];
7. tarpare la loro creatività [la caccia alle streghe come campagna contro le levatrici e le guaritrici e come pogrom contro le donne indipendenti e «non integrate» ; maggiore valutazione in tutte le culture delle elaborazioni maschili, cosicché i valori culturali si identificano con la soggettività maschile; matrimonio e maternità quali uniche possibilità di autorealizzazione femminile; sfruttamento sessuale delle donne da parte di artisti e insegnanti; smembramento sociale ed economico delle aspirazioni creative delle donne ; cancellazione della tradizione femminile] ;
8. impedire l’accesso ad ampie aree del sapere sociale e delle acquisizioni culturali [attraverso la non scolarizzazione delle femmine (il 60% degli analfabeti nel mondo sono donne); il «Grande Silenzio» storico culturale sulle donne e in particolare sull’esistenza lesbica ; gli stereotipi dei ruoli sessuali che tengono lontane le donne dalla
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scienza, la tecnologia e gli altri studi «maschili»; legami socio/professionali maschili che escludono le donne; discriminazione professionale delle donne].
Questi sono alcuni dei metodi mediante i quali si manifesta e si perpetua il potere maschile. Osservando lo schema presentato ciò che salta sicuramente agli occhi è il fatto che quel che abbiamo davanti non è semplicemente il mantenimento dell’ineguaglianza e della proprietà, ma un groviglio di forze con ramificazioni diffuse, che vanno dalla brutalità fisica al controllo delle coscienze, e ciò fa pensare all’esistenza di una enorme potenzialità di controforza da tenere a bada.
Vi sono alcune manifestazioni di potere maschile intese ad imporre alle donne l’eterosessualità, più facilmente identificabili di altre, ma tutte quelle che ho elencato contribuiscono alla creazione di quel coarcervo di forze al cui interno le donne sono state convinte che il matrimonio e l’orientamento sessuale verso gli uomini sono componenti inevitabili della loro vita, benché insoddisfacenti o oppressive. La cintura di castità, le spose-bambine, la soppressione dell’esistenza lesbica (escluso se esotica e perversa) nell’arte, nella letteratura e nel cinema; l’idealizzazione dell’amore eterosessuale e del matrimonio — sono tutte forme abbastanza palesi di coercizione, le prime due come esempi di forza fisica, le seconde come controllo delle coscienze. Mentre la clitoridectomia veniva denunciata dalle femministe come una forma di tortura delle donne , Kathleen Barry per prima indicò che non si tratta semplicemente di una pratica di brutale chirurgia per trasformare una giovinetta in una donna «da marito»: il suo scopo è quello di impedire alle donne che vivono in stretta intimità nel matrimonio poligamo di instaurare rapporti sessuali fra loro ; cioè:
— partendo da un punto di vista maschile di feticizzazione genitale
— i nessi erotici femminili, sia pure in una situazione di segregazione
sessuale, vengono letteralmente recisi.
Il ruolo di persuasore delle coscienze svolto dalla pornografia, è uno dei grossi temi di interesse generale del nostro tempo, soprattutto se si considera il potere di questa industria plurimiliardaria di diffondere immagini sempre più sadiche e degradanti della donna. Ma anche la cosiddetta pornografia softcore e la pubblicità presentano la donna come puro oggetto sessuale priva di spessore emotivo e di in-
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dividualità o personalità: in pratica, una merce sessuale a disposizione dei maschi. (La cosiddetta pornografia lesbica creata per soddisfare il voyeurismo maschile, è anch’essa svuotata di ogni contesto emotivo e di personalità). Il messaggio più distruttivo lanciato dalla pornografia è che la donna è la naturale preda sessuale dell’uomo e che ama esserlo; che non vi è incompatibilità fra sessualità e violenza e che per le donne il sesso è masochista, la degradazione è piacevole e la violenza, fisica è erotizzante. Ma a questo messaggio se ne aggiunge un altro, spesso non percepito: che l’imposizione della sottomissione e il ricorso alla crudeltà, all’interno di rapporti eterosessuali, sono sessualmente «normali», mentre la sensualità fra donne, che va dallo scambio erotico al rispetto, è una cosa «strana», «malata» e/o pornografica in sé oppure non molto eccitante, se paragonata alla sessualità
della frusta e delle catene . La pornografia crea non solamente un clima in cui sesso e violenza sono interscambiabili, ma amplia altresì la gamma dei comportamenti maschili che debbono considerarsi accettabili in un rapporto eterosessuale — comportamenti la cui costante è quella di privare la donna della sua autonomia, della dignità e del potenziale sessuale, compreso quello di amare ed essere riamata da altre donne in un rapporto di reciprocità e di interezza.
Nel suo libro, molto acuto, intitolato Sexual Harassment of Working Women: A Case of Sex Discrimination, Catharine A. MacKinnon descrive il nesso fra l’eterosessualità obbligata e l’economia. Nelle società capitalistiche le donne occupano una posizione strutturalmente inferiore nel mondo del lavoro e sono escluse dalla mobilità verticale sulla base del loro sesso, e questa non è certo una novità, ma la MacKinnon si chiede perché, ammesso che il capitalismo «necessita di gruppi di individui cui assegnare posizioni mal retribuite e prive di prestigio sociale…, tali individui debbano essere biologicamente femminili» e fa rilevare che «poiché i datori di lavoro maschi spesso non assumono personale qualificato femminile, anche quando potrebbero pagarlo meno del personale maschile, ciò comprova che ben altri elementi entrano in gioco, oltre il movente del profitto» (corsivo mio). L’autrice fornisce un’ampia documentazione del fatto che le donne non solo sono relegate in lavori scarsamente retribuiti e di ser-
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vizio (segretarie, domestiche, infermiere, dattilografe, centraliniste, maestre d’asilo, cameriere), ma anche che la «sessualizzazione della donna» fa parte integrante del lavoro. Vi e un elemento centrale ed intrinseco alla realtà economica della vita delle donne ed é la richiesta che esse «facciano mercato di seduzione sessuale con gli uomini : che generalmente detengono il potere economico e le posizioni sociali per imporre le loro scelte». Con una documentazione esaustiva, la MacKinnon dimostra che «le vessazioni sessuali perpetuano in un circolo vizioso, la struttura attraverso cui le donne sono state asservite all’uomo ai livelli più bassi del mercato del lavoro. Qui convergono due elementi della società americana: il controllo maschile sulla sessualità delle donne e il controllo del capitale sulla vita lavorativa dei dipendenti» . Sul lavoro, quindi, le donne sono alla mercé del sesso-come-potere, in un circolo vizioso. Svantaggiate dal punto di vista economico, esse — siano cameriere o docenti universitarie — devono sopportare le vessazioni sessuali per mantenere il posto di lavoro ed imparano a comportarsi secondo le regole eterosessuali del compiacere e dell’accattivare poiché capiscono che questo é l’unico requisito loro richiesto per ottenere un lavoro, qualunque ne siano le mansioni. E, continua la MacKinnon, chi oppone una ferma resistenza alle profferte sessuali sul lavoro viene accusata di «aridità» o di asessualità, oppure di lesbismo.
Appare evidente qui la differenza fra l’esperienza delle lesbiche e quella degli omosessuali maschi. Una lesbica in incognito sul luogo di lavoro a causa del pregiudizio eterosessista non é solamente costretta a negare la realtà dei suoi rapporti esterni o della sua vita privata, deve anche fingere, se vuole mantenere il posto, non solo di essere eterosessuale ma una donna eterosessuale, in termini di abbigliamento e di assunzione del ruolo di femmina deferente che si compete ad una «vera» donna.
La MacKinnon solleva interrogativi molto radicali rispetto alle differenze qualitative fra le vessazioni sessuali, lo stupro e i consueti rapporti eterosessuali. («Per utilizzare l’espressione di un imputato di stupro, egli non aveva impiegato ‘più forza di quanto normalmente ne usino gli uomini durante i preliminari’»). Critica Susan Brownmiller perché pratica una cesura fra lo stupro e l’esperienza della vita quotidiana e perché muove dalla premessa, non verificata, che «lo stupro appartiene alla sfera della violenza mentre il rapporto
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sessuale appartiene alla sessualità», sottraendo tout-court lo stupro alla sfera sessuale. La sua argomentazione più decisiva è che «sottrarre lo stupro alla sfera ‘sessuale’ relegandolo in quella della `violenza’, consente all’individuo di condannare lo stupro senza doversi peraltro interrogare rispetto all’influenza che l’istituzione dell’eterosessualità ha avuto nel fatto che la componente della forza sia accettata come normale componente dei `preliminari’» ; «Mai ci si interroga su quale significato possa avere, in condizioni di supremazia maschile, il concetto di ‘consenso’» .
Il fatto è che il luogo di lavoro, al pari di altre istituzioni sociali, è uno spazio in cui le donne hanno imparato ad accettare, come prezzo da pagare per la sopravvivenza, la violazione da parte maschile dei nostri confini fisici e psichici; uno spazio in cui le donne sono state educate — in ugual misura dalla letteratura romantica e dalla pornografia — a vedere se stesse come preda sessuale. Una donna che tenti di evitare sia le possibili violazioni; che gli svantaggi economici, è comprensibile che si rifugi nel matrimonio come luogo della protezione sperata, ma senza portare alcun potere né sociale né economico all’interno del matrimonio, entrando perciò anche in questa istituzione in posizione svantaggiata.
Infine la MacKinnon si chiede:
E se l’ineguaglianza fosse inscritta nella concezione sociale della sessualità maschile e femminile, della mascolinità e femminilità, del fascino sessuale e dell’attrazione secondo i canoni eterosessuali? I casi di vessazione sessuale maschile fanno pensare che lo stesso desiderio maschile possa essere destato dalla vulnerabilità femminile… Gli uomini avvertono che sono in condizione di approfittare, perciò vogliono farlo, perciò lo fanno. Quando si analizzano le vessazioni sessuali si è obbligati, proprio perché gli episodi appaiono come dei luoghi comuni, a prendere atto del fatto che il rapporto sessuale ha luogo solitamente fra individui economicamente (e fisicamente) ineguali… Il requisito, apparentemente legale, per cui una violazione della sessualità femminile deve avere i caratteri della straordinarietà per poter essere punita, concorre ad impedire alle donne la definizione delle condizioni ordinarie del loro consenso.
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Vista la natura e la portata della pressione eterosessuale, la quotidiana «eroticizzazione della subordinazione femminile» per usare l’espressione della MacKinnon , io metto in dubbio l’interpretazione più o meno psicoanalitica (suggerita da studiosi quali Karen Horney, H. R. Hayes, Wolfgang Lederer e ultimamente Dorothy Dinnerstein) secondo cui il bisogno maschile di controllare la sessualità femminile è il risultato di una originaria «paura maschile della donna» e della insaziabilità sessuale femminile. Sembra più probabile che gli uomini temano, in realtà non l’eventualità di essere esposti agli appetiti sessuali femminili o di essere soffocati e divorati dalle donne, ma piuttosto l’eventualità dell’indifferenza femminile nei loro confronti e di poter avere accesso sessuale ed emotivo — e quindi economico — alle donne solo alle condizioni di queste, o in altre parole a condizione di non accesso alla penetrazione (fisica e simbolica).*
Recentemente Kathleen Barry ha analizzato in uno studio molto esauriente i mezzi che garantiscono l’accesso sessuale alle donne. L’autrice porta le prove, esaurienti e terribili, dell’esistenza su amplissima scala di una schiavitù internazionale della donna, l’istituzione meglio nota come «tratta delle bianche», ma che in realtà riguardava, e tuttora riguarda, donne di ogni razza e classe sociale. Nell’analisi teorica basata sulla sua ricerca, la Barry mette in relazione fra loro le varie forme coatte di vita in cui le donne vivono soggette all’uomo: prostituzione, stupro coniugale, incesto padre-figlia e fratello-sorella, percosse, pornografia, compravendita delle mogli, vendita delle figlie, purdah e mutilazioni genitali. Secondo la Barry, il paradigma della violenza sessuale — secondo cui la vittima dello stupro è ritenuta responsabile della propria vittimizzazione — consente la razionalizzazione e l’accettazione di altre forme di asservimento, in cui si presume ugualmente che sia la donna ad aver «scelto» la sua sorte, ad accettarla passivamente, o a perseguirla con comportamenti avventati o sfrontati. La Barry sostiene invece che «l’asservimento sessuale della donna è presente in tutte quelle situazioni in cui una donna o una ragazza non è in grado di cambiare, le condizioni della propria esistenza, situazioni da cui, indipendentemente da come vi sono finite — ad esempio per pressioni sociali, difficoltà economiche, fiducia malriposta o bisogno di affetto — non sono in grado di tirarsi fuori e in cui sono sottoposte a violenza e sfruttamento
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sessuale» . L’autrice porta una serie di esempi concreti non solamente sull’esistenza di un diffusissimo traffico internazionale di donne, ma anche sulla sua organizzazione, che va dal «gran canale di Minnesota» che convoglia a Times Square le fuggiasche bionde e dagli occhi azzurri del Midwest, all’acquisto di giovinette provenienti dalle misere aree rurali dell’America Latina o del Sud-Est Asiatico alle «case di piacere» per gli emigrati del XVIII arrondissemeNt di Parigi. Invece di «biasimare la vittima» o cercare di diagnosticare la sua presunta patologia, la Barry mette a fuoco la patologia della colonizzazione sessuale stessa, l’ideologia del «sadismo culturale» che si manifesta attraverso la vasta industria della pornografia e l’identificazione generalizzata della donna vista fondamentalmente come «un essere sessuale al servizio sessuale dell’uomo» .
La Barry delinea quella che definisce una «prospettiva della prevaricazione sessuale» che, spacciandosi per obiettiva, ha reso quasi invisibile il terrorismo e l’abuso sessuale degli uomini sulle donne per il fatto di considerarli elementi naturali ed inevitabili. Secondo tale prospettiva, le donne sono fruibili al fine di assicurare il soddisfacimento dei bisogni sessuali ed emotivi del maschio. Il fine politico del suo libro é quello di sostituire questa prospettiva di prevaricazione con uno standard universale di libertà minime per le donne, che le liberi dalla specifica violenza di genere, dalle limitazioni di movimento e dal diritto maschile all’accesso sessuale ed emotivo nei loro confronti. Come Mary Daly nel suo libro Gyn/Ecology, anche la Barry rifiuta le razionalizzazioni strutturaliste e cultural-relativistiche della tortura sessuale e della violenza antifemminile. Nel capitolo introduttivo, la Barry sollecita i lettori a rifiutare le facili scappatoie dell’ignoranza e del rifiuto.
L’unico modo per uscire allo scoperto, per infrangere le nostre difese paralizzanti é quello di sapere, conoscere la reale portata della violenza sessuale e della prevaricazione sulle donne… Solo sapendo, affrontando apertamente la situazione, avremo la possibilità di tracciare un percorso che ci porti fuori dall’oppressione, prefigurando e creando un mondo libero dalla schiavitù sessuale delle donne .
[…] Fino a quando non nomineremo questa pratica, finché non la definiremo concettualmente e ne rintracceremo l’esistenza nel tempo e nello spazio, neppure le vittime più evidenti di questa pratica saranno in grado di nominare e definire la loro esperienza .
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Ma in modi e forme diverse, le donne sono tutte vittime della schiavitú sessuale e la difficoltà di nominarla e concettualizzarla è dovuta in parte all’istituto dell’eterosessualità, come la Barry chiaramente intuisce. L’istituzionalizzazione dall’eterosessualità facilita il compito del lenone e del mezzano negli ambienti della prostituzione mondiale e negli «eros centers», mentre nel privato delle famiglie, induce la figlia ad «accettare» l’incesto/stupro da parte del padre, la madre a negare l’evidenza, la moglie picchiata a restare presso il marito manesco. «L’offerta di, amicizia o amore» è fra le tattiche più collaudate dal lenone il cui lavoro consiste nell’affidare la giovane sbandata o fuggita di casa al mezzano per l’opportuno ammaestramento. L’ideologia dell’amore eterosessuale inculcatale fin da piccola attraverso le fiabe, la televisione, il cinema, la pubblicità, le canzonette e la coreografia dei riti nuziali, è uno strumento nelle mani del lenone di cui questi non esita a servirsi, com’è ampiamente documentato dalla Barry. L’indottrinamento precoce femminile al concetto di «amore» come emozione è certamente una concezione occidentale, ma un’ideologia più universale investe la supremazia e l’incontrollabilità dell’impulso sessuale maschile; ecco una delle acute analisi
della Barry in proposito:
Così come i maschi adolescenti assimilano il concetto di potere sessuale attraverso l’esperienza sociale dei loro impulsi sessuali, allo stesso modo le adolescenti apprendono che il centro del potere sessuale è maschile. Data l’importanza attribuita all’impulso sessuale maschile nella socializzazione sia delle ragazze che dei ragazzi, la prima adolescenza è forse la fase più importante di identificazione di sé ad immagine del maschio nella vita e nello sviluppo di una ragazza… Appena una giovinetta acquista consapevolezza della propria sensualità crescente… si discosta dai rapporti con le sue amiche, rapporti che fino ad allora erano fondamentali, e una volta che questi sono diventati secondari e hanno perso importanza nella sua vita, anche la sua identità assume un ruolo secondario ed essa incomincerà ad identificarsi nell’immagine che il maschio ha di lei .
Resta ancora da indagare il motivo per cui alcune donne non «si discostano» mai, neppure temporaneamente, «dai rapporti primari» con altre donne e perché l’identificazione di sé al maschile — cioè la professione di lealtà sociale, politica ed intellettuale all’uomo — è riscontrabile fra lesbiche che per tutta la vita sono state tali dal punto
Fare circolare la cultura lesbica è l’obiettivo di tutte, ovviamente.
Non segnalare il link al documento originale che è stato copia/incollato senza chiedere il permesso a nessuno, non è solo scorretto dal punto di vista della netiquette, ma è una forma di mancanza di riconoscimento nei confronti di chi (= altre lesbiche) ha perso il suo tempo per scriverlo o scansionarlo, correggerlo, chiedere l’autorizzazione a farlo, eventualmente tradurlo, ecc.
E’ possibile avere un po’ più di attenzione anche in queste “piccole” cose?
NM
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