LESBICHE E LAVORO da Francesca Grossi

Intervento di Francesca Grossi – Segreteria Nazionale Arcilesbica
2007 STESSE OPPORTUNITA’ NUOVE OPPORTUNITA’
Qualità di genere nel lavoro – Conferenza Nazionale 12 ottobre 2007

ABSTRACT
Tradizionalmente la tutela contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro ha riguardato le donne, nei confronti delle quali i principi costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento sono tuttavia, rimasti per lungo tempo, e tuttora in parte, non attuati.
Solo in tempi recenti abbiamo acquisito la consapevolezza, anche dal punto di vista legislativo, delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, sebbene la normativa in materia non rappresenti uno strumento efficace per favorire la visibilità delle lesbiche e la vivibilità degli ambienti di lavoro.
La progressiva precarizzazione del  lavoro è un ulteriore elemento di inibizione e di potenziale discriminazione.
I dati consultati restituiscono un valore minore al 50% del campione di donne che rivelano di essere lesbiche sul posto di lavoro.
In aggiunta, la precarietà lavorativa per le giovani lesbiche può risultare ancora più insidiosa, a causa di rapporti familiari tesi per la mancata accettazione dell’omosessualità, mentre, per chi sta in coppia, un ulteriore aggravio è dato dalla mancata equiparazione di eventuali forme di tutele o benefici in ragione della presenza di un coniuge.
Sul piano normativo è urgente una revisione della normativa in materia secondo principi di pari opportunità, e non solo di semplice tutela, integrando gli interventi a favore delle donne e delle persone con diverso orientamento sessuale e identità di genere, come pure una forma di riconoscimento delle unioni omosessuali.
Inoltre è necessario permeare le politiche sociali con una visione che includa e valorizzi le differenze: ad esempio nelle politiche per la famiglia facendo un passaggio dalla “famiglia” alle “famiglie”, intese come modello plurale di istituzione familiare.

Introduzione

Rivisitare in chiave di genere le politiche del lavoro, è un compito quanto mai necessario per superare il paradosso di uno stato moderno e con una giurisprudenza avanzata è ancora tanto escludente verso le donne.

Sappiamo che il compito non si esaurisce, se non ci si apre ad una  visione plurale delle identità e delle categorie sociali, che tenga conto diversi fattori identitari della persona e comprenda diversità culturali o aspetti profondi della personalità, come l’orientamento sessuale.

In questa relazione tenterò di portare lo sguardo di questo convegno alla vita delle donne lesbiche nel luogo di lavoro, al rapporto con la precarizzazione dei lavori, alle strategie di sopravvivenze e di focalizzare quali sono i rischi di discriminazione e quali sono gli effetti, e, infine, di fornire spunti ed idee, aiutata dalle esperienze europee, per mettere in pratica progetti efficaci nei luoghi di lavoro.

Quadro normativo
Tradizionalmente la tutela contro le discriminazioni nei luoghi di lavoro ha riguardato le donne, nei confronti delle quali i principi costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento sono rimasti per lungo tempo, e tuttora in parte, non attuati.

Solo in tempi recenti abbiamo acquisito la consapevolezza, anche dal punto di vista legislativo, delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.

L’Unione europea si sta adoperando da molti anni per promuovere i diritti fondamentali e la non discriminazione delle persone omosessuali.

Un passaggio importante viene segnato dalla Risoluzione dell’8 febbraio 1994 "Sulla parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità“.

In tema di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, l’ambito lavorativo, è l’unico specificamente trattato nella normativa europea e nazionale, diversamente da altre categorie all’origine dei trattamenti discriminatori. (Direttiva EC/78/2000).

La direttiva esprime concetti di uguaglianza in tema di occupazione, condizioni di lavoro, formazione; individua lo strumento del “dialogo sociale” come leva per la promozione delle pari opportunità, affronta ed amplia il concetto di molestia sessuale, includendo il  caso in cui l’oggetto di questi comportamenti sia una lesbica un gay un o una trans o presunti tali.

L’Italia nel 2003 ha recepito la direttiva ed ha emanato un decreto legislativo (n.216),  che vieta le discriminazioni per orientamento sessuale sul lavoro.

Anche la riforma del mercato del lavoro in un articolo dove tratta il divieto di indagine  sui lavoratori per le Agenzie, e altri operatori pubblici e privati, esplicita tra le categorie l’orientamento sessuale.

Gli  strumenti legislativi di cui disponiamo, quanto sono in grado di garantire l’effettività delle norme, in particolare quando il lavoro è precario?

La risposta è negativa per il DL 216, costruito con numerose lacune d eccezioni al principio di uguaglianza, adoperando equilibrismi legislativi, che arrivano fino al travisamento dei principi ispiratori della norma. Manca del tutto la previsione di strumenti di sensibilizzazione di promozione e di un ruolo attivo da parte delle associazioni di categoria, che sono, finora, detentrici della necessaria conoscenza dei fenomeni.

La risposta è negativa per la legge di riforma del mercato del lavoro, poiché le limitazione alle indagini nei confronti dei lavoratori, non possono rimuovere gli  ostacoli fondamentali che lesbiche e gay incontrano nella proprio a vita lavorativa.

Sappiamo che con la riforma del mercato del lavoro, contestualmente all’aumento delle tipologie di operatori ed alla moltiplicazione di tipologie contrattuali, si sono modificate in parte le tutele tradizionali del lavoro, sono aumentati i rischi di precarizzazione dei lavoratori addetti ad attività connotate da un elevato grado di flessibilità.

Nel quadro delle nuove regole è indubbio che i diritti di coloro che ricorrono, più spesso per  scelta obbligata, alle forme di lavoro atipiche, possono essere più facilmente violati, con maggiore difficoltà nel richiederne il rispetto.

La vita lavorativa delle lesbiche

In questo quadro qual è la situazione delle lesbiche, qual è legame  tra la vita lavorativa delle lesbiche e la precarietà del lavoro?

Fatto salvo il diritto di ognuno ad esprimere la propria identità, la prima fondamentale considerazione è che la condizione di precarietà dal punto di vista lavorativo può rappresentare un elemento di ulteriore inibizione dell’affermazione del proprio orientamento sessuale.

Questo comporta costi molto alti sia da un punto di vista personale che collettivo.

Ricerche condotte nel nostro e in altri Paesi (tra le ricerche consultate: "Diversi da chi? Gay, lesbiche, trans in un’area metropolitana", Chiara Saraceno, Guerini e Associati, Milano, 2003) indicano che il lavoro (inteso come lavoro stabile, regolato quindi da un contratto a tempo indeterminato) rappresenta un contesto che le persone omosessuali percepiscono come più insidioso rispetto alle discriminazioni e dove la visibilità appare più rischiosa.
Molte persone che sono uscite allo scoperto con gli amici e la famiglia hanno quindi scelto, per varie ragioni, di non fare altrettanto sul posto di lavoro.

Per dare una misura, i dati consultati restituiscono un valore minore al 50% del campione di donne che rivelano di essere lesbiche sul posto di lavoro.

Risulta da questa indagine che, riguardo al proprio essere lesbica,  il 19% delle donne dichiara che tutti i colleghi sono informati, l’8% che la maggioranza è informata, il 24% che la minoranza è informata, l’11% presume che sappiano, ma non se ne è mai parlato. Le percentuali di persone informate scendono quando si tratta di superiori o subordinati. In generale le donne tendono ad essere meno visibili degli uomini e più prudenti quando si tratta di subordinati o superiori.

Da un’inchiesta della Libera Università delle Donne, condotta nel corso del 2001, risulta che il 46% delle intervistate ha dichiarato la propria omosessualità  a poche fidate persone, l’11% a tutti, il 35 % a nessuno. Il 56 % delle lesbiche dichiarate testimonia di  aver suscitato simpatie e solidarietà, il 33% indifferenza, il 12 % di essere stata oggetto di derisione o emarginazione.

Per quanto riguarda le reazioni al coming out, le ricerche restituiscono un risultato variabile tra il 20 ed il 40 %, di persone che sono state testimoni di atti discriminatori di vario genere.

Essi vengono riferiti  come derisione (61 %), emarginazione (20%), minacce cambiamento di mansioni, licenziamento e violenze fisiche (11%).

Da una ricerca condotta da ArciLesbica nel 1999 su un campione di 90 intervistate, quasi tutte di età compresa tra il 25 e il 35 anni, geograficamente miste, quasi tutte senza figli, quasi tutte con titolo di studio diploma o laurea, e occupate: 86 hanno detto che le lesbiche non si dichiarano sul posto di lavoro per non rischiare di avere problemi. Tra i problemi si individua, come principale, l’emarginazione.

Quali sono le dinamiche di relazione e le strategie di sopravvivenza?

Ad ogni ingresso in un posto di lavoro, le lesbiche si trovano a fronteggiare un dilemma: se, e come, manifestare il proprio orientamento sessuale, oppure se, e come, assecondare la cosiddetta presunzione di eterosessualità.
    
Il luogo di lavoro è  un microcosmo in cui si riproducono relazioni e pregiudizi presenti nel resto della società. Ci sono situazioni in cui le persone vivono l’omosessualità di una collega come un fatto totalmente normale, ma in altri casi l’ambiente di lavoro può diventare invivibile al punto da compromettere la salute e le relazioni. Sono moltissime le persone che si sono rivolte agli sportelli sindacali perché hanno subito discriminazioni tali da costringerle ad abbandonare il lavoro.

Difficilmente si devono affrontare casi di discriminazioni dirette, è molto più probabile che si tratti di mobbing, La discriminazione può venire sia dal versante del datore di lavoro e che da quello dei colleghi.

Quindi, generalmente, le discriminazioni vengono mascherate attraverso pretesti legali, avvengono in modo indiretto e quasi mai l’omosessualità della dipendente é motivo "ufficiale" di un provvedimento del datore di lavoro.

Che succede con i lavori a termine, a progetto le nuove forme contrattuali?

Attraverso la progressiva precarizzazione dell’occupazione i datori di lavoro non sono nemmeno più obbligati a trovare pretesti o scuse per disfarsi della lavoratrice o del lavoratore indesiderato. Semplicemente non rinnoveranno più il contratto.

Si può quindi supporre che il timore di non vedersi più rinnovare il contratto, spinga ancora di più le lesbiche all’invisibilità sul posto di lavoro e quindi a ulteriori forme di autolimitazione nell’espressione della propria personalità.

Le scelte rispetto al grado di visibilità dipendono da un insieme di considerazioni.

Esse dipendono dal grado di sollecitazione alla comunicazione e visibilità che un determinato contesto lavorativo esprime nei confronti della vita privata delle persone e dalla misura in cui il codice della eterosessualità fa parte dello stile comunicativo informale.

Esse riguardano i costi e i benefici dell’essere visibili come lesbiche in un dato posto di lavoro: dalla potenziale pericolosità per la carriera, in relazione ad esempio al tipo di rapporto di lavoro (dipendente o autonomo, precario o fisso), al grado di fiducia verso i singoli colleghi o colleghe con cui si vuole venire allo scoperto, ai potenziali costi di una perdita del lavoro.

Inoltre, la visibilità è considerata particolarmente pericolosa anche per certi tipi di lavoro: è il caso degli insegnanti e di altre figure professionali che lavorano con i minori.

Ma anche la scelta dell’invisibilità non è priva di conseguenze.

Restare non visibili sul posto di lavoro non è una scelta passiva.
Sul posto di lavoro, l’eterosessualità non è soltanto data per scontata, ma anche continuamente manifestata, dall’anello al dito alle foto di famiglia, dalle confidenze con i colleghi, alle occasioni sociali in cui sono invitati i partner. Per restare invisibili sono quindi necessarie strategie per adeguarsi a queste aspettative, arrivando fino alla contraffazione di un’identità eterosessuale.

Queste strategie hanno costi in riferimento alla possibilità di stabilire relazioni di complicità, amicizia con i colleghi, o più in generale al disagio nell’essere forzati a nascondere una parte di sé sul lavoro,

In questo caso, si verifica pertanto una progressiva interiorizzazione della condizione di marginalità, un adattarsi al sopruso per quieto vivere immediato con ripercussioni sull’autostima e rinuncia a rivendicare il diritto al rispetto e alla qualità di vita.
 
Non solo, ciò porta ad una sostanziale sottovalutazione del fenomeno generale della discriminazione e dei problemi esistenti in primo luogo da parte di chi si autolimita e non si difende.

Altri costi sono dovuti al fatto che non essere visibili può impedire di reagire come si vorrebbe a comportamenti discriminatori o offensivi nei confronti di altre lesbiche.

Ma le esperienze dicono che ci sono ulteriori fattori di complessità ed altre conseguenze.

Al di là delle strategie personali le ricerche riferiscono di una maggiore preoccupazione tra le più giovani, forse perché meno sicure complessivamente di sé e della propria capacità di gestire le situazioni; ma forse anche perché, come tutte le loro coetanee, percepiscono il mercato del lavoro caratterizzato da poche sicurezze ed elevata competizione.

Per le lesbiche la precarietà dal punto di vista lavorativo può risultare ancora più insidiosa, nel momento in cui non possono contare sulla famiglia di origine a causa di rapporti tesi per la mancata accettazione dell’omosessualità.

Per chi sta in coppia invece la precarietà sul lavoro va ad aggiungersi alla precarietà generata dall’impossibilità di dare riconoscimento giuridico al proprio rapporto di coppia, alla totale assenza di diritti e garanzie a cui appellarsi in caso di scioglimento della coppia o di morte della partner, alla mancata equiparazione di eventuali forme di tutele o benefici in ragione della presenza di un coniuge.

Gli interventi necessari

Sul piano normativo è urgente una revisione del DL 216 del 2003, superando le lacune e gli ostacoli alla piena tutela delle persone omosessuali, come pure una forma di riconoscimento delle unioni omosessuali.

Inoltre è necessario permeare le politiche sociali con una visione che includa e valorizzi le differenze: ad esempio nelle politiche per la famiglia facendo un passaggio dalla “famiglia” alle “famiglie”, intese come modello plurale di istituzione familiare.

Quali buone pratiche per le pari opportunità che possono essere applicate nel mondo del lavoro?

Sappiamo che in Italia la condizione delle persone omosessuali e transessuali, risulta fortemente penalizzata dalla persistenza di uno stigma sociale, ed una inadeguatezza culturale e storica da parte della società a recepire stili di vita non corrispondenti a standard rassicuranti, definiti come socialmente accettabili. Quindi ci muoviamo in quadro non rassicurante sotto il profilo culturale, oltre che carente sul piano legislativo.

Un approccio importante parte dalla considerazione che le donne lesbiche sono esposte a rischi di discriminazione multipla.

E’ un approccio già ampiamente sviluppato, poiché nella decisione del Consiglio e del Parlamento Europeo, che ha istituito per il 2007 l’anno della pari opportunità, un punto focale è la necessità di politiche per le pari opportunità, che non prescindano dalla differenza di genere, ma che adottino un approccio “orizzontale” nel contrasto alle discriminazioni di genere, sesso, religione, etnia, età e disabilità.

Un punto di partenza fondamentale è il riconoscimento delle radici culturali e delle dinamiche sociali che generano l’esclusione, e creano percorsi ad ostacoli e sofferenza nella vita lavorativa,  passando dalla discriminazione di genere, alla presunzione di eterosessualità, allo stigma sociale della omosessualità.

L’obiettivo deve essere quello della creazione di un ambiente favorevole alla libera espressione delle diverse identità.

Abbiamo esempi, che vengono dagli Stati Uniti e dal Nord Europa, di progetti che coinvolgono datori di lavori e lavoratori, all’interno delle loro routine, al fine di vivere con consapevolezza la presenza di colleghi di diverso orientamento sessuale.

Ricordiamo l’istituzione da parte di alcune imprese della figura del diversity manager, esperienza dalla quale si possono mutuare alcuni principi.

Il Diversity Management nasce, nei primi anni novanta, negli Stati Uniti.  Secondo le definizione che viene dal mondo delle imprese, il Diversity Management è un processo aziendale di cambiamento, che ha lo scopo di valorizzare e utilizzare pienamente il contributo, unico, che ciascun dipendente può portare per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Inoltre, nello specifico della vita lavorativa di gay e lesbiche, possiamo riferirci ad esperienze europee.
In una, che ci arriva dalla Svezia, realizzata da una rete formata da sindacati, associazioni di categoria e soggetti istituzionali, dagli enti locali alle forze armate svedesi, portiamo l’esempio di un progetto che ha lo scopo creare all’interno dei luoghi di lavoro, un clima favorevole alla inclusione ed espressione identitaria.

Un azione sul piano culturale, per la rimozione delle credenze, ma anche per l’acquisizione di maggiore consapevolezza da parte di colleghi e datori di lavoro della presenza di colleghi omosessuali o della possibilità che essi siano presenti.

Uno dei “tool” distribuiti per l’utilizzo nei luoghi di lavoro contiene i seguente messaggi:

Come appare il tuo posto di lavoro?

Sono tutti partecipi quando durante il pranzo del lunedì si parla dello scorso week-end, o qualcuno siede in silenzio?

Va tutto bene quando porti il tuo partner di nome Lisa al party di Natale, se il tuo nome è Julie?

Provare a rispondere a queste domande è già un passaggio importante per la definizione della questione e per favorire un cambiamento culturale.

Le esperienze citate, possono essere riportate al nostro contesto e fornire uno spunto per promuovere simili iniziative; forse possiamo iniziare a pensare al prossimo bollino per le aziende del colore dell’arcobaleno.

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