L’autodeterminazione, intesa come spazio di auto-nomia dei corpi e
delle diverse sessualità, e il riconoscimento della libertà, per tutti gli infiniti
generi, di disertare l’istituzione matrimoniale sperimentando modelli alternativi
di relazione, sono due questioni sulle quali per definizione non si può affatto delegare.
E’ questa la ragione sociale del movimento delle donne e del movimento
glbt(q)(z).
Dire basta, una volta per tutte, all’imposizione di morali univoche
nelle scelte individuali, ai tentativi di sottrarre alle donne (e agli uomini) il
potere sul proprio corpo, di disciplinarci attraverso una norma sessuale, riproduttiva e
produttiva.
La società dello spettacolo e della precarietà cerca di addomesticare
le donne che non intendono ricoprire i ruoli scelti da altri, stringendole
nell’abbraccio mortale tra l’immagine della donna-perfetta madre-moglie-manager e la coreografica
donna-velina, che se parlasse diventerebbe pericolosa anche lei. Ma dal silenzio si esce
davvero provando ad allargare l’orizzonte della comunicazione ed è possibile farlo
giocando con le parole, inventando un nuovo vocabolario, senza abusare di termini o
slogan che hanno avuto fortuna in passato ma che ora hanno bisogno di essere rimodulati.
Siamo alla ricerca di una politica radicale della parodia capace di mettere in scacco
l’opposizione violenza/nonviolenza.
A chi vuole impropriamente strumentalizzare il corpo delle donne, i suoi molteplici
significati e piani di espressione, banalizzando le scelte che stanno dietro all’aborto o
alla fecondazione assistita, rappresentandoli come melodrammi in cui il protagonista di
tutte le inquadrature è un feto che galleggia nel vuoto, noi vogliamo rispondere con
l’uso in proprio del desiderio, dell’immaginario e della materialità del corpo.
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