Introduzione
Da sempre, la “visibilità” delle donne attraverso cortei e manifestazioni è stata una pratica del movimento femminista, anzitutto per manifestarsi come soggetto politico. Negli anni Settanta le donne scendevano in piazza dopo lunghi periodi di riflessione, di dibattiti, di lavoro sociale concreto, di pratiche collettive, e su questo fondamento certo è nato quello che rimane uno dei più importanti e originali movimenti del Novecento: il femminismo.
In questi anni, l’aver anteposto la “visibilità” come dato politico ha condotto invece a un’assenza di analisi sulle implicazioni dell’uscita pubblica delle donne. Non si è cercata la risposta a domande quali: Siamo soggetto politico? Dove si fonda tale soggettività collettiva? Cosa implica aprire una rivendicazione trovandosi al fianco anche di organizzazioni istituzionali? Quanto siamo in grado di mantenere una nostra autonomia di pensiero e di pratica politica? Non si corre forse il rischio di appiattire le differenze politiche, culturali, generazionali?
Perciò abbiamo sostenuto la due giorni, perché sentivamo la necessità di una riflessione collettiva su questo ordine di problemi. Infatti, il concetto di autonomia, anche negli ambiti del movimento lesbico e femminista, non ci garantisce l’estraneità da un processo di “semplificazione” da soggetto politico rivoluzionario a forza sociale che si limita a specifiche richieste di “diritti”.
Alcuni esempi. Nella grande manifestazione del 3 giugno 1995 a Roma le problematiche femministe furono scavalcate dalle questioni di politica interna nel clima delle imminenti elezioni: al bersaglio fondamentale (gli attacchi clericali alla legge 194) si sostituì il governo Berlusconi e la Destra che avanza, espropriando e annullando le migliaia di voci di donne e lesbiche che manifestavano. Ed è passato sotto silenzio che proprio la Sinistra aveva riproposto (con Ochetto prima e con D’Alema poi) la questione etica dei “diritti dell’embrione”, gareggiando già allora con la Destra nell’arrendevolezza alle gerarchie vaticane.
Il 14 gennaio 2006 a Milano la manifestazione indetta contro gli attacchi alla legge 194, ancora una volta nell’imminenza delle elezioni politiche, segna però un’inversione di tendenza. Il corteo aperto dalle più anziane, che reggevano lo striscione “Siamo uscite dal silenzio”, si chiudeva con lo spezzone delle più giovani con l’opposto slogan “Mai state zitte”. Le parole d’ordine di quel corteo andavano decisamente oltre la legge 194 e ricordavano molto quelle degli anni Settanta perché ricomprendevano la questione dell’aborto dentro il vissuto quotidiano delle donne: dal lavoro alla famiglia, dai rapporti con l’altro sesso alla politica in generale. Le donne a Milano hanno affermato che era ora di riorganizzarsi e di riprendere in mano il proprio destino. Proprio il tema del salario, del precariato, del lavoro di cura si è imposto con forza negli slogan, nei cartelli, nei volantini. Si è riconosciuto che il carattere astratto e vuoto della legalità borghese e della delega istituzionale apre nuove possibilità di analizzare i luoghi che le donne occupano realmente e di lottare a partire da essi, individuando alternative politiche che mettano in crisi l’attuale modello sociale.
Quella del 14 gennaio 2006 rimane una data importante perché segna una prima pubblica frattura tra le donne istituzionali e una nuova soggettività che pone il carattere antiistituzionale della politica femminista come discriminante imprescindibile: la manifestazione ha strappato il fitto velo di discorsi artificiosi ed elitari che proclamavano la raggiunta eguaglianza tra i sessi, denunciando le nuove forme strutturali della discriminazione e del sessismo. Vi è stata insomma la capacità di riconoscere che i processi di precarizzazione del lavoro femminile sono il fulcro materiale del rinnovato autoritarismo sul corpo delle donne – e che la soluzione non va cercata in una falsa coesione, ma nelle lotte, nel conflitto sociale.
Il 24 novembre 2007 centocinquantamila donne invadono Roma, calate da ogni parte d’Italia. Sono operaie, precarie, disoccupate, casalinghe forzate e rottamate. Un corteo di donne per le donne. La forza di quella manifestazione è quella di aver coniugato il tema della violenza a tutto campo (nella famiglia, nel lavoro, nelle politiche securitarie e xenofobe) proponendo uno sguardo complessivo e non settoriale e mistificante. La gestione orizzontale, dal basso, ne ha determinato anche la portata antiistituzionale e non soltanto per la cacciata delle ministre dal palco, quanto piuttosto per la “cacciata” dalla piazza dell’illusione che la violenza possa essere contrastata mediante leggi securitarie e politiche familiste. Per noi oggi la discriminante antiistituzionale risulta un fondamento irrinunciabile delle pratiche femministe, mentre il separatismo resta una questione aperta su cui occorre riflettere a partire dalle proprie specifiche situazioni. Crediamo tuttavia che ancora oggi vi sia la necessità di percorsi autonomi e separatisti del movimento di liberazione della donna per non essere più subordinate né a ideologie femminili o maschili, né ad analisi e linee politiche precostituite. Si tratta di elaborare un nostro discorso indipendentemente dai tempi e modi della politica istituzionale che strumentalizza ciclicamente la forza di mobilitazione delle donne soltanto per servirsene in campagna elettorale. Di là dalle grandi manifestazioni (nel 1995, nel 2000, nel 2006 e ora l’8 marzo 2008, sempre in concomitanza con l’apertura di una campagna per le elezioni politiche), occorre dare continuità alla riflessione, alla critica, alla sperimentazione, alle pratiche, all’autonomia delle donne.
I due anni intercorsi tra la manifestazione del gennaio 2006 e quella del novembre 2007 hanno segnato un forte cambiamento: a differenza delle altre manifestazioni questa era autorganizzata, separatista, antiistituzionale. Questo tipo di pratica politica e questi contenuti non sono nati dal nulla, ma dalla consapevolezza, ormai collettiva, che niente può più essere delegato: “non in nostro nome”. Ce lo impone la situazione attuale: il fallimento delle politiche istituzionali, la violenza crescente contro le donne, la crisi economica e politica che spinge verso una ricomposizione autoritaria della famiglia come unità economica. Proprio la difficoltà delle giovani donne, e ancor più delle donne con figli, nel reperire un lavoro stabile e il difficile accesso a beni fondamentali come la casa e i servizi sociali hanno coagulato la rabbia delle donne che non hanno più sentito il loro disagio come condizione individuale, ma come una dimensione collettiva, come un attacco a quei percorsi sociali che avevano portato a rompere con un privato di isolamento e alienazione. L’autonomia delle donne, i processi di socializzazione, l’autodeterminazione nelle scelte di vita sono emersi con fermezza dinanzi al tentativo di restaurare la famiglia come unità base dell’esistenza. È stata una risposta forte. Esattamente quello che le donne istituzionali non possono fare, perché non hanno più come riferimento la condizione reale delle donne e del posto che occupano nel lavoro, nella famiglia e nella società. Da sempre il movimento femminista ha posto come questione principale l’analisi della specifica condizione di sfruttamento e oppressione della donna. Parlare di lavoro non vuol dire quindi privilegiare o escludere altre questioni. Vuol dire esaminare la realtà per costruire insieme soggettività sociali certe che possano dare concretezza e continuità a una cultura politica alternativa. Occorre iniziare un percorso di analisi che possa dare indicazioni pratiche affinché ognuna sappia meglio come procedere, ognuna col suo contributo e le sue strategie.
La “produttività” delle donne
Prima degli anni Settanta le analisi sociologiche del mercato del lavoro, pur dando visibilità al ruolo delle donne, si sono basate su categorie apparentemente “neutre” senza considerare affatto il lavoro domestico. Ma lungo gli anni Settanta il movimento femminista ha messo in crisi le riduttive griglie teoriche del sociologismo marxista mettendo all’ordine del giorno la dimensione sessuata dei rapporti sociali. E oggi, volendo indagare la situazione delle donne nel quadro della produzione per individuare le trasformazioni avvenute, è a questa irreversibile rottura teorica che bisogna rifarsi.
Vari sono i concetti di “produttività” che il movimento femminista ha elaborato a partire da differenti linee di ricerca. Tuttavia si possono ridurre essenzialmente a due: 1) un concetto che, ancorato sul terreno teorico della dottrina marxista, cerca di coniugare femminismo e lotta di classe; 2) un concetto che, legato a un approccio materialista che si avvale anche di strumenti analitici marxiani, tende a considerare la specificità dello sfruttamento femminile. Nel primo caso il “nemico principale” viene individuato nel capitalismo; nel secondo, risulta invece il patriarcato. Ma di fronte a queste due diverse impostazioni va sottolineato che entrambe hanno affrontato il lavoro domestico in termini di lavoro produttivo segnando decisamente un passo avanti.
Questa problematica fu dibattuta per la prima volta da quel settore del movimento femminista che si era definito “Comitato veneto per il Salario al lavoro domestico”. “In Italia – ricorda Maria Rosa Dalla Costa – il lavoro domestico, oltre che un discorso e un momento di vivacissimo dibattito all’interno del movimento aveva costituito il fulcro di un coacervo di lotte e mobilitazione in anni in cui si muovevano con forza settori fondamentali della società”. Fu un dibattito che travalicò i confini italiani ed ebbe l’esito di porre il lavoro domestico in rapporto al capitalismo come nodo cruciale per analizzare la subalternità sociale delle donne in termini di sfruttamento. La battaglia si presentava su due fronti principali: quello domestico e quello pubblico. Si trattava di attaccare le strutture oppressive all’interno della casa e di rimuovere le barriere discriminatorie al suo esterno. In entrambi i casi ciò implica di affrontare anzitutto la divisione sessuale del lavoro e i suoi effetti sociali, dimostrando il nesso tra la sfera domestica e quella pubblica.
Il fenomeno del lavoro part-time, del lavoro nero, del lavoro sottopagato esiste proprio per la posizione contraddittoria delle donne che si trovano tra la sfera della produzione e quella della riproduzione, e che si presume debbano essere in relazione di dipendenza da un salario maschile. La difficoltà di organizzarsi con successo contro queste forme di sfruttamento capitalistico, insieme alla passività o addirittura alla resistenza del movimento sindacale a maggioranza maschile, ha portato al perpetuarsi delle pratiche discriminatorie contro le lavoratrici, malgrado alcune leggi che avrebbero dovuto ridurre o abolire le disuguaglianze.
Guardiamo ai provvedimenti legislativi. Del 1977 è la legge sulla “parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro”, del 1984 la Commissione Nazionale Parità, del 1990 il Comitato Pari Opportunità. Tuttavia, i dati aggiornati al 2003 dimostrano come nella contrattazione collettiva il tema delle pari opportunità sia quasi del tutto assente. Ad esempio su un totale di 1653 accordi aziendali siglati dalle parti sociali in una regione “avanzata” come l’Emilia-Romagna tra il 1998 e il 2002, le intese che contengono un riferimento alle pari opportunità sono 135: il 92% degli accordi sottoscritti non considera la condizione lavorativa specifica della donna. Eppure degli attuali iscritti e delegati della CGIL la metà sono donne. Né le leggi incidono sul fenomeno del cosiddetto “soffitto di cristallo”: il fatto che nei diversi livelli le donne sono comunque sottomansionate. Per le qualifiche più elevate, gli uomini sono nel 19% dei casi capireparto o dirigenti, le donne lo sono solo nell’8% dei casi. Nei consigli d’amministrazione aziendali le donne rappresentano il 5% contro un 95% di uomini. Nei livelli più bassi, il 14% degli operai è specializzato, fra le operaie solo il 6%, mentre la componente femminile si addensa nelle fasce salariali più basse (e i dati ufficiali sottostimano l’ambito, in gran parte femminile, del “lavoro nero”). Man mano invece che aumenta il titolo di studio, cresce la discriminazione sugli incentivi. A parità di lavoro, le donne hanno guadagnato nel 2006 il 9% in meno degli uomini, con una disparità di salario che giunge al 26% in meno per ruoli dirigenziali. In Italia cresce l’occupazione femminile, anzi tra il 1993 e il 2003 le donne rappresentano oltre l’80% dell’espansione occupazionale complessiva, ma sempre in ruoli temporanei e sottopagati. L’esistenza di barriere all’accesso al lavoro è evidente anche nel variare dei tassi di occupazione secondo il numero di figli. E il 20% delle donne occupate non lavora più dopo la nascita del primo figlio. Del resto, l’accesso dei bambini agli asili nido in Italia è del 9% contro il 60% della media europea.
Oggi, quindi, la centralità teorica del lavoro domestico – dalla casa alla cura dei figli e degli anziani – non è soltanto un ricordo del passato: il lavoro domestico è oggi il luogo fondamentale della ristrutturazione complessiva di tutta la società.
Fin dal secondo dopoguerra lo sviluppo del welfare state – e oggi la sua “crisi” – ha prodotto un crescente interesse dello Stato per la famiglia: ciò che in precedenza era vissuto e costruito come “privato” è stato reso, nel welfare state, pubblico e politico. Questo carattere non viene abolito, oggi, dalla “crisi” del welfare state, ma riorganizzato in direzione di un’area di lavori, beni, prestazioni non più “pubblici” né “privati” in senso classico. Associazionismo, volontariato, “sussidiarietà” devono sopperire alla ritirata del “pubblico” e alla crisi dello “stato del benessere”, producendo relazioni e “servizi”, colmando non solo i buchi di bilancio e i tagli di spesa, ma il vuoto di “senso” che colpisce la società del dopo-benessere. In questo processo le donne sono chiamate a un ruolo di primo piano e la famiglia torna ad occupare il centro della scena.
Ma, al tempo stesso, il lavoro domestico risulta un efficace strumento di subordinazione e di selezione del mondo femminile. Da un lato, infatti, la sostanziale ineguaglianza dei ruoli all’interno della famiglia rende vano, in generale, il tentativo di eguagliare gli uomini sul terreno del lavoro, dal momento che essi mantengono sempre il vantaggio di essere liberi dalle incombenze della casa. Dall’altro, trasgredire alla rigida divisione dei ruoli è possibile soltanto a una ristretta minoranza di donne meglio dotate da un punto di vista culturale e sociale. Quindi, volendo parlare di “pari opportunità” anche all’interno dell’universo femminile, siamo ben lontane da una generica promozione di tutte le donne. Anzi, mentre si continuano a emanare leggi sul lavoro di eguale valore, si organizza strutturalmente il lavoro diseguale ignorando – o meglio: volendo ignorare – la condizione di oppressione e di sfruttamento femminile che è “a monte”. Così, al di sotto della “buona coscienza” istituzionale, le disuguaglianze proliferano. Oggi la dominazione maschile non soltanto si maschera dietro a leggi falsamente egualitarie, ma ha bisogno di anestetizzare la coscienza della disuguaglianza. Così la diffusione selettiva di immagini – le fotografie patinate di donne in carriera, gli armoniosi ritratti di donne realizzate, gli idillici quadretti familiari della pubblicità – deve convincere che la parità tra i sessi è ormai raggiunta. Ed è entro questa fondamentale dissociazione tra immagini e realtà che prende forma la violenza maschile come volontà di dominio e sfruttamento.
Le strategie di sottrazione
Un tema molto dibattuto negli ultimi decenni è certo quello del declino demografico. In Italia il coefficiente di riproduzione è il più basso del mondo (oggi circa l’1,4). “Tale abbassamento della natalità ha avuto un peso determinante nel modificarsi della struttura stessa della popolazione in una direzione improduttiva. Al suo interno, ad esempio, la quota degli anziani è sempre più rilevante, mentre decresce a vista d’occhio quella delle nuove leve. Questo invecchiamento della popolazione è una pugnalata al cuore del capitale perché è evidente che da una quota sempre crescente di forza-lavoro esso non può più estrarre plusvalore nel mentre si dilata, di contro, la spesa pubblica” (Leopoldina Fortunati, L’arcano della riproduzione, Padova, Marsilio, 1981, p. 243). La denatalità e l’invecchiamento della popolazione, moltiplicando i costi (e quindi i tagli) dell’assistenza sociale, ha imposto allo Stato di recuperare la “grande assente”: la famiglia come unità di riproduzione economica. “Le politiche demografiche – osserva Alisa Del Re – non sono un fatto recente: dai tempi più antichi la natalità è stata un problema di stato e ha fatto oggetto di politiche più o meno esplicite nei confronti delle donne”. Oggi come ai tempi dei Romani, con una medesima strategia, “il problema femminile è trattato a livello di massa: si struttura un ruolo omogeneo interclassista, si costruisce la donna-madre, consacrata alla famiglia, alla casa, dipendente dal marito; suo solo e unico dovere la riproduzione della «razza»” (Alisa Del Re, Politiche demografiche e controllo sociale in Francia, Italia e Germania negli anni ’30, in Stato e rapporti sociali di sesso, Milano, Franco Angeli, 1989, pp. 119 e 122). La crociata contro l’aborto, la propaganda contro gli anticoncezionali, la messa al bando dell’omosessualità e del lesbismo, la lotta contro la sterilità, i diversi progetti tesi a incrementare la natalità mediante un sistema di premi e punizioni fiscali sono elementi che già caratterizzavano la politica demografica fascista e nazista, e che tornano oggi, di fronte alla crisi, a riproporsi violentemente nei dibattiti e nelle proposte portate avanti dallo Stato e dalla Chiesa. Ma, osserva ancora la Del Re, negli ultimi decenni “le donne hanno opposto una resistenza precisa sul terreno del lavoro e sulla quantità dei figli prodotti. Hanno accettato il terreno della qualità della riproduzione” (Alisa Del Re, Politiche demografiche e controllo sociale, cit., pp. 144-145). Le donne generano meno figli certamente non per un fattore biologico: in questi anni le donne hanno sferrato un duro colpo sottraendosi silenziosamente al comando di fare più figli e rivendicando nei fatti un’ampia autonomia e libertà di scelta. Meno figli vuol dire meno lavoro domestico e più possibilità di autodeterminare la propria vita.
Inoltre, l’aumento del numero di divorzi, la scelta di molte donne di vivere da sole, le famiglie composte da coppie gay o lesbiche allontanano la famiglia dal suo modello tradizionale. Una famiglia “irregolare” che per lo Stato non è una famiglia e nei cui confronti lo Stato ha come problema aperto quello di ricostruire la capacità del comando sul lavoro domestico e le griglie del controllo complessivo sulle donne e sui bambini.
In questi anni, la crisi occupazionale, il calo della natalità, l’invecchiamento della popolazione e la tendenziale scomparsa della famiglia tradizionale hanno suscitato un’offensiva in grande stile a favore del ritorno delle donne al focolare domestico. Si tratta di una politica “familista” che, sostenuta energicamente dalla Chiesa cattolica, sceglie come bersaglio favorito il lavoro delle donne e, in particolare, quello delle donne sposate con figli.
Ma già negli anni Settanta il movimento femminista denunciava il “lavoro di cura” come lavoro erogato gratuitamente su cui si imbastivano speculazioni e manipolazioni ideologiche. La necessità di soddisfare i bisogni altrui per soddisfare i propri è stata mistificata agli occhi della donna come “amore” perché è una specifica ideologia dell’amore che il capitale ha fondato e sostiene per giustificare il lavoro domestico come lavoro gratuito: “Le cure assistenziali – scrive Giovanna Franca Dalla Costa – appaiono così un corollario conseguente dell’amore, una conseguente espressione amorosa. La mistificazione giunge al punto che si parla anche di uno scambio «vicendevole» di amore, nascondendo dietro l’immagine di uno scambio paritario il fatto che l’uomo acquista la forza-lavoro della donna come sua operaia. Rispetto al tempo il lavoratore libero può godere del resto del suo tempo come «tempo libero». E tale tempo egli consuma in luoghi assolutamente diversi dai luoghi dove svolge il suo lavoro” (Giovanna Franca Dalla Costa, Un lavoro d’amore, Roma, Edizioni delle Donne, 1978, pp. 19 e 21-22).
Con la sua aggressività, la rinnovata campagna “familista” di questi anni dimostra l’importanza centrale del lavoro domestico come luogo di sfruttamento e come area polivalente di forza-lavoro che può continuamente essere rigiocata entro le nuove procedure della flessibilità del lavoro, costringendo le masse femminili alla marginalità, all’insicurezza, alla dipendenza dal salario maschile.
Occorre allora interrogare nuovamente le strategie di sottrazione delle donne, non solo nell’ambito domestico, ma anche nel loro specifico rapporto con il mercato del lavoro.
La rimozione della memoria storica
Separatismo e autonomia sono le pratiche che il movimento femminista ha sperimentato fin dal suo nascere contro l’oppressione specifica delle donne: una pratica tesa ad affermare una nuova coscienza collettiva attraverso il rifiuto preliminare di qualunque mediazione con lo Stato. È stato l’ultimo grande movimento di massa che ha avuto la forza di trasformare dal basso la società, la vita quotidiana, l’universo dei rapporti sociali.
Le “conquiste democratiche” a favore delle donne non furono che un sottoprodotto istituzionale di quella stagione di lotte: era il tentativo di canalizzare, mediare, svuotare le istanze radicali da parte delle organizzazioni femminili dei partiti. Ad esempio, di fronte alla pratica autorganizzata dell’aborto la risposta politica dello Stato avvenne attraverso una legge che riduceva il tema cruciale dell’autodeterminazione a una richiesta particolare nel quadro della tutela della maternità.
Negli anni Ottanta questo stesso ruolo di mediazione col potere si affinava nelle elucubrazioni mistificanti del “pensiero della differenza sessuale”. Attraverso concetti capziosi (autorità, autorevolezza, disparità tra donne, affidamento) le “intellettuali della differenza” teorizzavano l’impossibilità della pratica femminista del partire da sé come dato politico. Ed era una filosofia della delega al femminile che trovava il suo corrispettivo in pratiche quali le “quote di rappresentanza”, il “vota donna”, le “leggi delle donne”, incanalando in tal modo la forza collettiva delle donne in discorsi di “diritti” e “responsabilità” per poter esercitare la “sovranità femminile” nei luoghi di potere. Così, con astruse teorie sul “corpo” e la “mente”, il “pensiero della differenza” dimenticava e faceva dimenticare che il corpo politicizzato è un corpo che lavora, lasciando le donne del tutto prive di strumenti analitici di fronte alla realtà delle discriminazioni e dello sfruttamento quotidiano. Anzi, proprio la destrutturazione della coscienza collettiva delle donne, operata attraverso le speculazioni futili ed elitarie del “pensiero della differenza”, lasciava campo libero alla riproduzione innovativa della disuguaglianza e dello sfruttamento.
Negli anni Novanta il coinvolgimento del pensiero “femminista” negli organi di controllo a livello globale (università, ministeri della famiglia, delle politiche sociali, delle pari opportunità) provoca un’ondata di entusiasmo. Si dichiara a gran voce la “fine del patriarcato”: “Il patriarcato è finito, – si legge in “Sottosopra” del gennaio 1996 – non ha più credito femminile ed è finito. È durato tanto quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare”. In realtà, il successo delle leader del femminismo istituzionale si rivelava ben presto una strategia fallimentare: la “riuscita” di alcune non era che il contrappeso dello sfruttamento di tutte.
Oggi si tratta di recuperare la memoria storica del femminismo e ricordare che esso nasce mettendo in questione proprio il campo del lavoro come base materiale delle disuguaglianze sociali. Oggi, nel tempo del preteso superamento del taylorismo, si deve ribadire che la maggior parte del lavoro femminile continua a essere esecutivo, ripetitivo, standardizzato. E non si può non aggiungere che le forme tradizionali di industrialismo, scomparse o ridotte in Europa e negli Stati Uniti, non si sono affatto dissolte nel nulla, ma sono state esportate nelle periferie e semi-periferie dell’impero.
Un altro sviluppo
Nel mondo attuale si vanno nuovamente espandendo le forme più arcaiche di sfruttamento: il lavoro in schiavitù, l’espropriazione o “privatizzazione” di beni comuni essenziali come la terra e l’acqua, il traffico dei corpi, lo sterminio per fame e guerre di coloro che risultano “inutili” al capitale. Oggi più che mai l’accumulazione di ricchezza genera, all’altro polo della scala sociale, una brutale accumulazione di miseria. E in questi processi le donne si trovano a pagare i costi più alti in termini di povertà, sfruttamento, violenza e morte: costrette a cercare lavoro in modo svantaggiato rispetto all’uomo, restano però comunque responsabili del lavoro di produzione e riproduzione della forza-lavoro.
Di fronte alle contraddizioni drammatiche della nostra epoca, crediamo sia necessario non solo lottare contro l’ingiustizia crescente, ma anche pensare il senso della nostra esistenza e il consenso che diamo ogni giorno, inavvertitamente, a questo modello di sviluppo, a tutto quello che ci hanno fatto credere sia “normale”. Proprio per questo abbiamo bisogno di pensare un altro sviluppo e di portare dentro il nostro agire sociale il senso di un futuro possibile e diverso.
Prospettive di lotta
Sparse sono state in questi anni le lotte che hanno risposto alla violenta ipocrisia delle leggi, e ha invece trionfato il meccanismo della delega istituzionale e la conciliazione delle contraddizioni in un evasivo e astratto consenso. Abituandoci ad affidare ad altri la conquista e la difesa della nostra libertà, le politiche istituzionali si sono rivelate un modo efficace per governare una società reazionaria e ingiusta, non certo per abolire o ridurre l’ingiustizia sociale, il sessismo e l’arroganza clericale. È ora di demistificare i meccanismi di discriminazione e sfruttamento, e di passare da una sottrazione silenziosa e individuale alla costruzione di una coscienza collettiva, non elitaria o “simbolica”, non fondata sulla delega, ma agìta sul terreno delle condizioni reali di vita. Perché, anche nell’ambito del lavoro, la questione era e rimane quella di un cambiamento radicale della struttura sessista e capitalista della società. È una partita che occorre provare a vincere, anzitutto per noi, ma anche per riaprire gli orizzonti di un mondo sempre più povero di prospettive, di speranze e di utopie. Crediamo per questo che i temi fondamentali su cui discutere siano:
– orari di lavoro e tempo di vita;
– il reddito per l’autodeterminazione;
– il lavoro precario e le possibili forme di lotta da adottare;
– l’ambiente e il concetto di sviluppo o progresso;
– la creazione di osservatori autogestiti sulle problematiche femminili del lavoro (un luogo per agire in prima persona come donne, non solo a scopo rivendicativo, ma di analisi e di osservazione dell’universo lavorativo femminile).
Tentare di intraprendere nuovamente una critica complessiva del conflitto tra i sessi e dell’attuale sistema economico è un bisogno e un desiderio che, crediamo, si è espresso nella manifestazione del 24 novembre 2007 e che ci ha portate oggi qui a riflettere insieme su questi temi.